«Il tempo come durata non esiste. Esiste un tempo infinito. L’arte è una condizione infinita, è una condizione non conclusa da nessuno. Nemmeno Picasso ha concluso le sue ricerche. Quello che conta è la ricerca». Durante questa intervista Luigi Mainolfi mi racconta la sua storia, la sua idea di arte e le sfide che attendono oggi l’artista contemporaneo.

Intervista a cura di LUCA GRECO
La sua carriera artistica è ricca di esperienze e importanti riconoscimenti internazionali. Facendo un piccolo passo indietro nel tempo, lei se lo ricorda il suo primo approccio alla scultura? Le andrebbe di raccontarmelo?
«Io ho studiato Pittura. Appena finito l’Accademia sono andato dal formatore e ho incominciato ad imparare. All’epoca si usava molto la fotografia. C’era l’arte povera. Adesso anche loro si chiamano scultori, ma all’epoca la parola scultura non si poteva usare, apparteneva agli artisti dell’arte moderna come Marino Marini e Manzoni. I nuovi artisti si consideravano più concettuali che scultori. Io volevo fare lo scultore un po’ anche per differenziarmi dalle cose che gli altri facevano. È così che ho incominciato».

Dopo gli studi di pittura all’Accademia di belle arti di Napoli lei si trasferisce a Torino nel 1973. Nella sua biografia leggo che doveva trattarsi di una sosta temporanea in vista di un trasferimento a Milano. Alla fine, però, è rimasto qui. Che rapporto sussiste tra la sua arte e questa città? Quanto è stata importante Torino per le sue creazioni?
«Mi sono trasferito a Torino. Ci sono finito per caso. Le gallerie mi trattavano male. Allora i torinesi ce l’avevano con i meridionali. Non c’era quella libertà che mi aspettavo, quella libertà che c’è adesso. Oggi Torino è meravigliosa. Il mio rapporto con questa città è stato importante. Questa è una città dura, però poi se ti riconosce ti dà tutto. Per essere riconoscente a questa città ho fatto un lavoro dedicato a Torino che è “Torino che guarda il mare” che ho esposto a Napoli in occasione di una grande mostra al Maschio Angioino. Quindi per ringraziare ho fatto questo grande omaggio che sono due o trecento ritratti che rappresentano all’incirca la città di Torino. Io però penso che l’artista si può fare dappertutto. La città mi ha influenzato poco nel mio caso. Le idee ce ne avevo già troppe allora e ne ho troppe adesso».

I suoi primi lavori indagano il corpo e il gesto. Durante alcune performance ad esempio lei lascia consumare calchi del proprio corpo in gesso nell’acqua affinchè la scultura subisca una trasformazione. Che legame sussiste tra l’opera d’arte e il tempo?
«Questo è importante. Io penso che il più grande artista è la natura. […] Noi siamo solo dei piccoli microbi sulla Terra. Noi apparteniamo al corpo dell’Universo. La creazione è quella, l’atto creativo è quello. È povera l’idea che noi diventiamo creatori. Noi non saremo mai delle mamme. E allora cosa facevo io? Facevo le sculture e poi le distruggevo perché dicevo che questo mi deve servire come base ad andare oltre perché l’arte, in realtà, non è un fine. Non arrivi a fare il quadro, la statua o l’oggetto più importante. Non ci riuscirai mai, però la pratica ti permette di vivere una grande esperienza, una grande possibilità, un grande contatto. E la luce tu la vedi da lontano, io la vedo la luce dell’arte. Le generazioni d’oggi arrivano subito a certe cose. Concludono un quadro. Per me il quadro non si è mai concluso. Capisci? Questo è il concetto.
Quel lavoro di cui tu parli si chiama “Brano”. C’è l’acqua che cade, si muove piano piano e nel movimento leggero e impercettibile consuma la statua. Io ancora ce l’ho ancora una parte che è stata proprio consumata e se la vedi, sembra forgiata veramente da un altro artista perché si sono creati dei segmenti geometrici come se fossero delle masse muscolare a cui io non avevo pensato. Quello è l’atto.
Oppure i tentativi di volo: nel ’77 o ’76 per la Settimana Internazionale delle Performance ho attaccato in alto un mio autoritratto con le ali al MAMBO (allora si chiamava Galleria d’Arte Moderna) e a mezzanotte ho staccato il gancio e la statua è caduta a terra. Si sono spente le luci e nell’aria c’è stato uno svolazzio di piume. Il tempo come durata non esiste. Esiste un tempo infinito. L’arte è una condizione infinita, è una condizione non conclusa da nessuno. Nemmeno Picasso ha concluso le sue ricerche. Quello che conta è la ricerca. È come la vita. Se uno pensa alla morte che vita fai? È chiaro che non devi pensare di essere immortale, però con l’arte si può pensare all’immortalità. Possiamo pensare all’immortalità attraverso l’arte, non necessariamente attraverso le cose importanti. È possibile pensare all’immortalità anche attraverso i piccoli gesti».

Ci sono picchi d’immortalità durante il processo creativo?
«No, non credo che ce ne siano. Si tende all’immortalità. Si vorrebbe tendere all’immortalità, ma non credo che ci sia. A fare quella cosa non c’è immortalità, c’è solo rozza manodopera. E anche dopo quando è venuta fuori una scultura, quella scultura serve ad andare oltre perché se ti fermi sei finito. L’atto creativo come lavoro è continuo. Tra 100 anni io penso che esisterà ancora Leonardo, esisterà Michelangelo, esisterà Caravaggio, forse Picasso. Molti spariranno. Tu pensa che Caravaggio è stato scoperto nell’Ottocento. Molti artisti non si conoscevano. A volte ho paura che ci sarà più ignoranza in futuro e l’ignoranza porta alla non conoscenza a non qualificare certi valori. Tu devi pensare che oggi esiste qualcosa che non è mai esistito prima nel mondo dell’arte: esiste l’arte gestita dalla finanza. Una volta era gestita dai mecenati, sempre gente che stava bene, però erano mecenati. Adesso c’è la finanza che prende qualsiasi artista e lo porta alle stelle. Oggi ci sono artisti contemporanei che sono il mito delle accademie. Si pensa che il valore commerciale di un prodotto sia il massimo. Invece non è così. Molti crolleranno e altri resteranno. L’importante, però, è che resti il mito dell’arte, non gli artisti. Gli artisti possono pure non esistere più. L’importante è il mito dell’arte».

Molte sue opere sono realizzate attraverso l’impiego di materiali poveri, molto vicini alla natura (terracotta, legno, pietra lavica e fusioni in bronzo). Come sceglie i materiali per le sue creazioni? Che rapporto sussiste tra la sua arte e la materia?
«Ogni idea ha bisogno di un materiale. Ci sono degli artisti che fanno tutto in terracotta o tutto di giallo o tutto in ferro. Per me invece esistono delle cose che puoi fare solo in terracotta, delle cose che puoi fare solo in bronzo, delle cose che puoi fare solo in marmo. Io ho utilizzato l’acqua, ho utilizzato tante cose. È chiaro, sono più vicino ai materiali naturali rispetto a quelli un po’ chimici. Mi piace ancora il legno e non amo molto le resine. Non amo molto l’odore di questi materiali, però può capitare di usarli».
Oggi l’arte non è più fruita attraverso i suoi caratteri formali, ma per il costitutivo stato di spaesamento (una sorta di schok estetico) che essa produce. È possibile trovare all’interno di questa visione dell’arte speranze di emancipazione per l’umanità?
«Arte e politica.. è un po’ difficile perché il mercato ha preso il sopravvento su tutto, su tutto. Se guardi ai movimenti storici ti accorgi che nascono tutti con delle esigenze politiche, letterarie e psicologiche, teatrali. Adesso non c’è più niente. Non c’è nessuna forma di politica che unisce questi settori. Prima c’era il realismo sovietico e adesso che cosa c’è? Non c’è niente. Prima c’era il Futurismo. Prima c’era il Surrealismo, adesso che cosa c’è? Non ci sono più dei movimenti che partono dalla politica. Sì, c’è Cattelan che con le sue sculture manda tutti a quel paese, ci sono dei gesti. Sono rimasti i gesti, ma i gesti li facevamo tutti da giovani. Da giovani avevamo più possibilità di scelta. Potevamo ribellarci. C’era il ’68. A scuola dovevamo andare tutti vestiti in un certo modo. Non c’erano i jeans. Adesso tutti hanno i jeans. Abbiamo fatto delle piccole rivoluzioni sociali durante quel periodo. Adesso qual è la rivoluzione? Oggi la rivoluzione è gestita dalla finanza, come tutto, come i media, come anche quello che fai tu. Anche quello che fai tu sarà gestito dalla finanza. Io poi sognavo un mondo libero. Sognavo non un’Europa, ma un mondo. Adesso, invece, ci sono dei nuovi torinesi, dei nuovi milanesi, i napoletani. Non arriveremo mai al concetto di universalità dell’uomo, eppure i giovani vestono tutti uguali: tutti vestiti di scuro, tutti con le stesse cose sia nei paesi arabi che in America, eppure si sentono diversi. Io questa cosa non la capisco. E quando un giovane si sente diverso da un altro giovane quello è il male, quello è il virus che sta contaminando il mondo. La diversità è bella, ma come intelligenza, ma non quella basata sul luogo di nascita o sulla pelle».

Che cos’è per lei la bellezza?
«La bellezza è vivere. La bellezza è la salute. Non la felicità, ma la salute. Vivere la vita totalmente. Vivere, esistere… Questo è bello. Io non amo le definizioni degli altri. Per me la bellezza è la vita, una vita intensa, una vita con degli scopi, una vita con un passato, un presente e un futuro. Questa è la bellezza. Se non ci sono queste tre cose niente è bello».

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