Inaugurata nel maggio del 2000, la Tate Modern di Londra è diventata oggi un’icona dell’arte contemporanea internazionale e una tappa obbligata per chi visita la capitale inglese. Situata lungo le rive del Tamigi, all’interno della storica centrale termoelettrica di Bankside, con la sua imponente ciminiera e gli spazi espositivi ricavati tra le vecchie turbine, questo luogo non è solo un museo, ma è un’esperienza unica che coniuga arte, architettura e cultura.
Con i suoi 5 milioni di visitatori all’anno, la Tate Modern è il museo d’arte moderna più frequentato al mondo. Progettata dagli architetti svizzeri Herzog & de Meuron, si distingue per i suoi ampi spazi e le gallerie tematiche che ospitano prestigiose collezioni, capolavori di artisti iconici, mostre temporanee e installazioni interattive.
Il momento ideale per apprezzare la magia dell’arte contemporanea? Alle 10:00 del mattino, all’apertura, quando le sale del museo sono ancora tranquille e silenziose. È allora che puoi esplorare con calma, assaporando ogni dettaglio delle opere esposte. Un’esperienza indimenticabile.

L’ingresso gratuito e la sua vista magnifica ne fanno una meta ideale non solo per gli appassionati d’arte, ma anche per chi cerca una nuova prospettiva su Londra, tra le migliori. Sarà la magia dell’arte, ma non appena usciti dalla Tate Modern tutto di sembra possibile. A me, per esempio, piace pensare che subito dopo St Paul ci sia il mare.

Scopriamo insieme, ora, cosa vedere in questo straordinario museo e il significato che si nasconde dietro alcuni capolavori che ho selezionato in questo articolo.
1. “WHAAM!” di Roy Lichtenstein

“Pop” a quei tempi voleva dire molte cose. Erano gli anni ’50 e i mass media, in rapida espansione, facevano sognare milioni di persone con “Macchine scintillanti!”, “Ragazze sexy” e nuovi prodotti di consumo di massa. Giornali, riviste, cinema e televisioni inviavano continuamente seducenti promesse e slogan pubblicitari nelle case della gente comune, esercitando una grande influenza sulla cultura popolare. Cambiava il linguaggio della pubblicità (molto più diretto e incisivo) e con esso cambiavano anche i comportamenti e i valori dei consumatori. Nuovi prodotti e una nuova comunicazione creavano nuovi bisogni e quindi nuove aspirazioni di benessere.
L’Occidente era in pieno boom economico e Roy Lichtenstein fu certamente tra i primi a percepire la vitalità di questa nuova cultura popolare. Mai come in questo periodo l’arte si mostrava alle masse. Mai come allora, nuovi metodi e tecniche impiegate nel cinema e nella pubblicità venivano adottati dagli artisti per le loro creazioni.

È proprio questo il caso di Whaam! (1963), il dipinto che sconvolse il mondo dell’arte a metà degli anni ’60.
L’opera, della grandezza di 1,7 m × 4,0 m, raffigura una battaglia aerea nello stile dei fumetti. Sulla sinistra troviamo un jet da combattimento americano che irrompe sulla scena lanciando un razzo che colpisce un aereo nemico presente sul pannello di destra e provoca una fragorosa esplosione rossa e gialla. Oltre a una didascalia con riquadro giallo e lettere nere nella parte superiore sinistra dell’opera, troviamo, nella parte opposta, il titolo del dipinto come parte integrante dell’azione che si sta svolgendo per descrivere l’accaduto con una grande onomatopea, accentuata dalla doppia presenza di una “A” e dal punto esclamativo – non solo “WHAM”, ma “WHAAM!” in caratteri cubitali gialli nella parte alta della tela. L’azione raffigurata si svolge in un cielo completamente cosparso da punti a Ben-Day, una tecnica di stampa inventata nel 1879 da Benjamin Henry Day per simulare variazioni di colore e sfumature.
Il tema trattato prese ispirazione dai fumetti popolari o dai film di Hollywood di quegli anni ambientati durante la Guerra Fredda. In molti hanno letto in questo dipinto una sorta di monito riguardo alle implicazioni della guerra. Ricordiamo che WHAAM! fu ultimato poco prima che gli Stati Uniti entrassero nella guerra del Vietnam. L’“effetto fumetto” accentuava l’idea di serialità minimizzando la mano dell’artista per sovvertire quell’idea di unicità e originalità tipica delle opere astratte degli espressionisti. WHAAM! mostra un pilota che trova la libertà mentre spara un missile. Tutta la società americana dell’epoca compreso l’intero movimento della Pop Art sembrava in fondo riconoscersi in questo gesto di liberazione e di sovversione.
Lichtenstein dipinse la realtà di un mondo irreale e scintillante in chiave ironica non solo nel linguaggio, ma anche nelle emozioni, persino in un momento così drammatico come la guerra. In momenti come questi siamo abituati a pensare che le nostre emozioni ed esperienze siano uniche e irripetibili. Ma siamo sicuri che tutto questo sia vero?
2. “The End of the 20th Century” di Joseph Beuys

Blocchi di basalto di origine vulcanica giacciono sparsi sul pavimento della Tate Modern di Londra. Questa è la fine del ventesimo secolo. Questo è il vecchio mondo, sul quale Joseph Beuys marchia con un timbro circolare il segno indelebile del nuovo mondo.
The End of the 20th Century (1983–1985) risale agli ultimi anni della sua vita, quando l’artista tedesco tornò a lavorare con materiali naturali come la pietra, il legno e il bronzo. L’opera è composta da ben trentuno rocce di basalto sparse sul pavimento in modo apparentemente casuale. I blocchi in realtà sono disposti in gruppi sciolti quasi a sembrare dei detriti di ciò che resta del XX secolo. Ogni blocco misura tra uno e due metri e mezzo di lunghezza e ha un foro a forma di cono nella parte superiore di una delle sue estremità. I pezzi di basalto che sono stati rimossi da queste cavità delle pietre sono stati estratti con estrema cautela e attenzione, lucidati, levigati e rivestiti da feltro e argilla prima di essere riposti nuovamente nei loro fori.
La scelta del feltro e dell’argilla non è affatto casuale, ma richiama un episodio significativo della vita di Beuys. Durante la Seconda Guerra Mondiale partecipa come aviatore all’offensiva nazista contro i russi. Durante uno scontro il suo aereo viene abbattuto nei cieli di Crimea. Sopravvissuto all’incidente, viene ritrovato semi congelato e in fin di vita da un gruppo di tartari (nomadi delle steppe), che lo salvano avvolgendolo proprio con quello stesso feltro impiegato nella sua installazione.L’esperienza della guerra segnerà profondamente l’anima dell’artista tedesco e lo condurrà a un cambiamento radicale e a una misteriosa rinascita spirituale, segno della sua trasformazione da semplice uomo ad artista.

Da quel momento in poi il suo interesse per le civiltà arcaiche e per la visione sciamanica coinvolgerà completamente la sua attività artistica. Per Beuys la natura rappresenta l’elemento principale con il quale l’arte deve costantemente misurarsi. L’arte è l’elemento di congiunzione tra la natura e la società e l’artista è il suo intermediario principale che ha il compito di “formare” la società – intesa come una scultura sociale – attraverso performance artistiche e orazioni e di risvegliare le anime mostrando loro come le cose potrebbero essere.
L’arte prima di ogni cosa è una questione sociale, che esprime la volontà di ricongiungimento spirituale dell’uomo moderno con l’antica forza della natura. The End of the 20th Century (1983–1985) è riconducibile all’impegno sociale ed ecologico di Beyus. L’idea di realizzare questa monumentale installazionenasce, infatti, proprio dalla sua volontà di piantare 7000 querce nella città di Kassel. Il piano originario prevedeva la collocazione di ciascuna roccia di basalto accanto agli alberi piantati al fine rappresentare il rinnovamento sociale e ideologico che stava per nascere.
Beuys morì prima che l’opera fosse installata (nel gennaio del 1986), lasciando in eredità alcuni schizzi iniziali che illustrano i possibili modi di disporre le pietre, qualche enigma e tanti sogni per un’intera generazione che vedeva nella sua arte la possibilità di riaccendersi come mai aveva fatto finora. L’opera è stata acquistata dalla Tate Modern nel 1991 ed esposta successivamente al pubblico nel 1992 seguendo alcune indicazioni conservate nei suoi appunti. Da allora esperti, curatori e storici dell’arte provenienti da tutto il mondo continuano ad interrogarsi sulla corretta disposizione di quelle rocce e sul profondo significato di quell’opera, misteriosa allegoria del tempo.
3. Jeanne Hébuterne (1918) di Amedeo Modigliani

Essenziale, elegante e introspettiva, la pittura di Modigliani si concentra quasi esclusivamente sul ritratto. Il suo obiettivo è penetrare l’anima dei modelli per raffigurarla in una forma mai del tutto realistica. Le figure, dai lineamenti allungati, spesso senza pupille e con occhi leggermente asimmetrici, hanno un’espressione enigmatica. I suoi soggetti sono amici, colleghi pittori, letterati, intellettuali e la sua giovane compagna Jeanne Hébuterne, musa e modella preferita, protagonista del celebre ritratto esposto alla Tate Modern.
In questo quadro, la realtà è trasfigurata: le forme vengono allungate in modo innaturale, a sottolineare l’aspirazione di Modigliani a una perfezione stilistica superiore. L’artista livornese semplifica le forme eliminando dettagli descrittivi, perseguendo incessantemente una purezza capace di esprimere la verità interiore di Jeanne. L’interesse di Modigliani è tutto concentrato sulla singolarità e unicità del soggetto, mentre l’ambiente circostante assume un ruolo puramente cromatico e spaziale. Non importa neppure l’azione svolta: i suoi soggetti, solitamente inerti e seduti, sembrano sospesi in una dimensione atemporale.
Nonostante i compromessi, le mode e gli insuccessi che segnarono la sua carriera, Modigliani rimase fedele alla sua visione artistica, ai suoi ideali e ai suoi sogni. I sogni prima di tutto. I sogni sopra ogni cosa. Questo quadro ne è l’emblema più potente.
4. “Marilyn Diptych” di Andy Warhol

A differenza di Modigliani, che nei suoi ritratti cerca di cogliere la psicologia del soggetto, Warhol non si interessa alla dimensione interiore dei personaggi. Ciò che lo affascina è l’immagine patinata e artificiale della “superstar” del cinema, trasformata dai mass media in una sorta di divinità moderna.
Per l’artista americano, un’immagine acquisisce significato nella nostra società non per la sua bellezza in sé, ma attraverso la ripetizione. Un esempio emblematico di questa idea è il Marilyn Diptych, realizzato tramite la tecnica della serigrafia e composto da due tele argentate. Su di esse, la stessa foto di Marilyn Monroe, tratta dal film Niagara (1953), viene ripetuta 50 volte, organizzata in 5 righe e 10 colonne. Nel pannello sinistro, le 25 immagini sono a colori, mentre nel pannello destro appaiono in bianco e nero, creando un contrasto visivo e simbolico.
Tutto questo non ci fa vivere più un’esperienza diretta della realtà, ma una realtà mediata, fatta di immagini pure riprodotte dai mezzi di comunicazione di massa. La bellezza di quest’opera sta tutta qui, come egli dice:
“vi basta guardare la superficie dei miei quadri, dei miei film, della mia persona. Ed è lì che sono io. Dietro non c’è niente”.
5. Fontana di Marcel Duchamp

Per Marcel Duchamp, l’arte non è mai un’esperienza conclusa o isolata. L’atto creativo non si esaurisce con l’artista, poiché è sempre lo spettatore a completare il processo, stabilendo il collegamento tra l’opera e il mondo esterno.

I suoi celebri ready made sono oggetti artistici che non aspirano al concetto di bellezza tradizionale. L’oggetto ritrovato viene reinserito nella sfera dell’arte, trasformandola in un “fatto sociale”: un fenomeno al tempo stesso familiare, riconoscibile ed enigmatico. Un esempio emblematico è “Fontana” (1917), una delle opere più note e controverse dell’artista francese: un orinatoio firmato R. Mutt.
Una firma che negli anni suscitò diverse interpretazioni: alcuni la collegarono al fumetto “Mutt and Jeff”, mentre altri ritennero che fosse riferita alla parola tedesca “Armut”, che significa “povertà”. Duchamp stesso, però, suggerì che la “R” stesse per “Richard”, un termine dello slang francese usato per indicare un sacco di denaro.

Indipendentemente dal significato nascosto dietro quella firma, Duchamp ebbe il grande merito di trasformare un semplice oggetto di uso quotidiano in un’opera d’arte. Rimuovendolo dal suo contesto pratico, gli attribuì un nuovo significato attraverso una diversa collocazione, un titolo inedito e un nuovo punto di vista. In questo modo, spostò l’attenzione sull’aspetto concettuale dell’arte, anziché su quello puramente fisico.
Il pezzo originale di Fontana andò perduto dopo la prima esposizione, ma le 16 versioni attualmente conservate nei musei di tutto il mondo, tra cui il Tate Modern di Londra, sono repliche realizzate su richiesta dello stesso Duchamp.

6. “The British Library” di Yinka Shonibare

Con l’opera “The British Library”, l’artista anglo-nigeriano Yinka Shonibare vuole celebrare la bellezza della diversità che definisce l’identità culturale inglese, plasmata in larga misura dall’eredità della colonizzazione durante l’apice dell’Impero Britannico nell’epoca vittoriana.
Tutti i 6.328 libri sono rivestiti con tessuto Ankara, un cotone caratterizzato da vivaci motivi batik stampati a cera, ampiamente utilizzato nell’abbigliamento dell’Africa occidentale e centrale. La scelta di utilizzare questo particolare materiale non è casuale: l’opera di Yinka Shonibare trova la sua chiave di lettura proprio nell’ambivalente significato attribuito all’Ankara. Sebbene nel tempo sia diventato un simbolo del continente postcoloniale, il tessuto fu introdotto in Africa nel XIX secolo dai mercanti olandesi, e la sua accettazione rimane tuttora controversa. Per alcuni rappresenta un’imposizione occidentale, mentre per altri è stato riappropriato e trasformato in un’espressione di identità africana.
Molti dei libri riportano sui dorsi i nomi di immigrati di prima e seconda generazione che hanno contribuito a fare la storia della nazione. L’installazione comprende anche libri con i nomi di noti personaggi che si sono opposti all’immigrazione, oltre a tablet interattivi che consentono di approfondire le storie delle persone cui i libri si ispirano.
Infine, vi sono altri volumi senza nome, simbolicamente dedicati ai flussi migratori attuali o futuri, con storie ancora tutte da scrivere.

Commissionata nel 2014 da HOUSE 2014 e Brighton Festival, The British Library si propone soprattutto come uno spazio di confronto e riflessione, evidenziando i contributi straordinari, passati e presenti, offerti alla società britannica da coloro che sono arrivati da altre parti del mondo o i cui antenati migrarono in Gran Bretagna. Una rilettura originale di un avvenimento del passato per ri-pensare l’attualità, nell’ambito della globalizzazione.
7. “Babel” di Cildo Meireles

Una torre alta 3 metri e larga 5, composta da ben 800 radio analogiche, ognuna sintonizzata su una frequenza diversa, domina una delle sale della Tate Modern. Il riferimento dell’opera dell’arista brasiliano Cildo Meireles al racconto biblico della Torre di Babele risulta immediatamente chiaro, già a partire dal titolo: Babel (2001).
Secondo la leggenda, Dio, sfidato dall’ambizione e dalla grandiosità della torre, punì i suoi costruttori facendo sì che parlassero lingue diverse, impedendo loro di comprendersi. Così si divisero e si dispersero in tutto il mondo. Da questa incapacità di comunicare, secondo il mito, hanno avuto origine tutti i conflitti umani.
Con Babel, Meireles intende rappresentare il sovraccarico di informazioni tipico della nostra epoca, un fenomeno che, invece di favorire la comunicazione, spesso genera incomprensione. Questo stato di disorientamento riflette la condizione contemporanea, in cui la sovrabbondanza di dati non si traduce necessariamente in maggiore chiarezza o connessione, ma può invece diventare fonte di confusione e isolamento. Attraverso un caos sonoro, l’opera invita a riflettere sulla complessità di orientarsi nel mare di informazioni che definisce il nostro tempo.

Alla base dell’installazione si trovano le radio più antiche e di grandi dimensioni (tutte perfettamente funzionanti). Salendo, compaiono radio di dimensioni più ridotte, prodotte in epoche più recenti, dagli anni 1920 fino ai giorni nostri. Questa variazione nelle dimensioni non è una scelta casuale, ma serve ad accentuare la percezione dell’altezza. Inoltre, l’opera si basa anche sull’ascolto di radio sintonizzate su frequenze diverse, rendendo ogni visita un’esperienza unica e irripetibile: il mix di voci trasmesse e musica è in continua evoluzione, garantendo che non ci siano mai due esperienze uguali.

8. “Forme uniche della continuità nello spazio” di Umberto Boccioni

Linee fluide e dinamiche attraversano lo spazio, proiettandosi verso un futuro in perenne trasformazione: è questa l’essenza di “Forme uniche della continuità nello spazio”, la celebre scultura di Umberto Boccioni, emblema del Futurismo.
L’opera segna l’abbandono definitivo della tradizione in favore di un’esplorazione audace della velocità e della forza del movimento. La figura umana in cammino sembra fondersi con l’aria e lo spazio che la circondano, dando vita a un corpo aerodinamico plasmato dal vento.
Linee a spirale avvolgono il corpo in un moto continuo, suggerendo un’espansione infinita delle forme, mentre l’alternarsi di pieni, vuoti, rilievi e cavità genera un chiaroscuro vibrante, fatto di giochi di luce e ombra che amplificano il senso di dinamismo. Alcuni dettagli anatomici, come i muscoli dei polpacci e l’articolazione del ginocchio, emergono con forza, ma la totale assenza delle braccia sottolinea l’essenza astratta e futurista della scultura.
L’opera originale, realizzata in gesso, non fu mai fusa in bronzo durante la vita di Boccioni. Oggi, il modello in gesso è conservato al Museo di Arte Contemporanea di San Paolo del Brasile, mentre numerose fusioni successive continuano a celebrare questo capolavoro in musei di tutto il mondo.

Nel 1931 ne vennero create due: una è oggi esposta al Museum of Modern Art di New York, mentre l’altra si trova al Museo del Novecento di Milano. Altre due fusioni risalgono al 1949, una delle quali è conservata al Metropolitan Museum of Art di New York. Nel 1972 furono prodotte ulteriori fusioni: una per la Tate Modern di Londra e altre otto, ricavate da un calco del 1949.

9. “Con un sorriso” di Mimmo Rotella

Nel corso della sua ricerca artistica, Mimmo Rotella esplorò diversi ambiti, rivolgendosi frequentemente al mondo del cinema e della comunicazione. Nei primi anni ’50, l’artista italiano iniziò a strappare manifesti dalle pareti di spazi pubblici a Roma, utilizzandoli per creare collage di composizioni mai viste prima.
Questi sono gli anni in cui Rotella abbraccia il decollare , una tecnica rivoluzionaria che gli consente di recuperare e riassemblare manifesti cinematografici e pubblicitari, arricchendoli con l’inserimento di ready-made e oggetti di recupero. Molte di queste composizioni divennero un racconto critico sulla società del boom consumistico del dopoguerra.
È proprio questo il caso dell’opera “Con un sorriso” (1962), nella quale, non solo veniva celebrata la vivacità visiva di quell’epoca, ma ne venivano messe in luce anche le contraddizioni, mostrando come l’ossessione per il consumo e la spettacolarizzazione avessero plasmato le aspirazioni e i valori della società di quegli anni.
10. Composizione B (No.II) con rosso (1935) di Piet Mondrian

Piet Mondrian dedicò la sua carriera a cercare armonia e equilibrio tra colori e forme, applicando questi principi nel movimento che lui chiamò “neoplasticismo”. Usava colori primari e superfici neutre, alternando linee verticali e orizzontali, per rappresentare un ideale di equilibrio universale.
Ogni sua opera era un microcosmo, un simbolo di equilibrio tra arte e vita, che rifletteva la sua speranza di applicare il neoplasticismo a una società futura. Il suo stile si evolse, passando dai paesaggi realistici a forme sempre più astratte, con l’obiettivo di scomporre e ricomporre la realtà in modo da trovare un equilibrio formale e cromatico unico.
Questa ricerca si vede chiaramente in Composizione B (No. II) con rosso, dove il rosso si unisce al bianco, che Mondrian considerava un non-colore, e al nero delle linee che definiscono lo spazio. L’opera esposta alla Tate Modern segna un punto importante della sua carriera, che cambiò intorno al 1920, durante il suo soggiorno a Parigi. In quel periodo, Mondrian abbandonò ogni riferimento alla natura, concentrandosi solo su quadrati e rettangoli dai colori primari, separati da linee rette.
Mondrian credeva che l’arte potesse riflettere i principi dell’equilibrio universale. Come egli stesso diceva:
“Alla fine le mie composizioni consistevano solo di linee verticali e orizzontali, che formavano delle croci. Osservando il mare, il cielo e le stelle, desideravo indicare la loro funzione plastica mediante una molteplicità di elementi verticali e orizzontali”.
In opere come questa, le linee non sono semplici confini tra piani colorati, ma elementi centrali della composizione.
Il colore rosso è ridotto a un unico rettangolo rosso, situato in alto a sinistra, mentre gli altri otto rettangoli disuguali rimangono neutri, creando un equilibrio visivo tra forme e spazi. Le linee nere, vere protagoniste della composizione, separano e definiscono le aree cromatiche. Quattro rette, due verticali e due orizzontali, attraversano la tela da bordo a bordo, incrociandosi al centro e formando una croce.
L’asimmetria, creata dalla maggiore vicinanza delle due linee verticali rispetto a quelle orizzontali, genera una percezione di movimento che riflette l’ideale di Mondrian: un “equilibrio dinamico della vera vita”, dove l’armonia nasce dal continuo dialogo tra staticità e dinamismo.

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