Durante quest’intervista parleremo con Livio Milanesio della genesi e delle ricerche svolte durante la scrittura del suo ultimo libro, «La verità che ricordavo» (Codice Edizioni). Ogni storia è una verità raccontata. Questo romanzo narra la personale seconda guerra mondiale di Dino, protagonista della storia e padre dell’autore. Al di là della mitologia storica fatta di buoni e cattivi assoluti, indagheremo la personalità, i sogni e le disillusioni del protagonista senza eroismo.
Intervista a cura di Luca Greco
Livio, come nasce l’idea di scrivere questo libro?
«È un’idea che non nasce. È un’idea che persiste. Questa storia è cresciuta con me da quando non ricordo. La storia di mio padre mi appartiene. C’è stato un periodo in cui l’ho rifiutata completamente perché non sopportavo il fatto che mio padre non avesse una storia eroica da raccontare sulla seconda guerra mondiale. Lui era uno che diceva: “i tedeschi che ho incontrato io non erano cattivi”. Lui ce l’aveva un po’ con i fascisti perché erano coloro che l’avevano arrestato e in parte torturato, ma con i tedeschi no. Ci sono stati anni in cui ci parlavamo poco. Lui non era un gran chiacchierone. Questa storia è rimasta un po’ a fermentare finchè sono nate le mie figlie. Da quel momento ho pensato che forse dovevo lasciare una storia a loro. Ho incominciato allora a leggere e ad interessarmi di quel periodo al di là della mitologia storica fatta di buoni e cattivi. Man mano che incominciavo a ricostruire il puzzle, mi accorgevo quanto fosse una storia particolare. Alcuni fatti mi sembravano assurdi. Per esempio, nel libro mio padre dice: “ho visto nazisti di colore che andavano in giro dandosi la mano”. In realtà, nel campo dove era stato portato mio padre veniva addestrata una divisione un po’ farlocca di circa 200 nazionalisti indiani che erano stati catturati in nordafrica. I tedeschi avevano promesso agli indiani che se avessero combattuto contro gli inglesi avrebbero dato l’indipendenza all’India. Per gli indiani andare in giro mano nella mano è normale, la cosa interessante di questa storia è il punto di vista di mio padre estremamente originale. Lui interpretava tutto.
Mi raccontava che verso la fine della guerra l’esercito tedesco era diventato più piccolo, non solo da un punto di vista numerico, ma anche da un punto di vista dimensionale: all’interno del suo circolo i tedeschi testavano carri armati che erano grandi un metro e mezzo. Lui interpretava questa scelta come la conseguenza del fatto che non ci fosse più metallo per produrli. Veso il ’44 debutta il Goliath, un carro armato radiocomandato talmente piccolo da non contenere neppure una persona dentro, progettato per posizionarsi sotto i carri avversari e farsi esplodere. “L’esercito tedesco che si rimpicciolisce” è una frase che avrebbe potuto scrivere Garcìa Márquez. Lo sguardo di mio padre mi ricordava quel realismo magico dello scrittore sudamericano: all’interno di una situazione assolutamente realistica lui inseriva elementi magici in maniera del tutto naturale.
Questo è un periodo storico estremamente raccontato, ma alla fine poi ti rendi conto che molto è mitologia indiscutibile, quasi un dato di fatto. La seconda guerra mondiale è stata l’ultima guerra tranquillizzante tra buoni contro i cattivi. Poi c’è stata la guarra di Corea e la guerra del Vietnam, guerre assurde e inutili. Solo in questi ultimi anni stanno venendo alla luce documenti sui crimini di guerra compiuti da parte dei liberatori. Una cosa che mi ha colpito particolarmente è stato il silenzio nel quale sono passate le persecuzioni degli ebrei durante il dopoguerra. Nel 1946, quando gli ebrei-polacchi tornarono nella città di Kielce avviene un massacro: dei 200 sopravvissuti alla Shoah 47 vengono uccisi dai soldati polacchi. Questo episodio non viene mai raccontato perché è imbarazzante, perché va fuori il modello buoni vs cattivi. I cattivi sono già stati eliminati e quei 47 ebrei non contano niente, non esistono, non devono esistere. Sono quelle scene che tagli perché non fanno parte della struttura narrativa del racconto. Questo libro nasce anche da una necessità storica».
Vorrei parlare con te delle ricerche che hai svolto durante la scrittura del libro. Come sei venuto a conoscenza del fatto che quel lager abbandonato nella foresta di Königsbrück esisteva ancora?
«Per caso. Di solito mio padre utilizzava dei termini molto imprecisi per definire dove era stato; mi raccontava di aver lavorato nel casinò militare. Io ho sempre immaginato questo luogo come se fosse un classico casinò, con le ballerine e i croupier. In realtà, “Offizierkasino” in tedesco vuol dire Circolo ufficiali. Da oltre vent’anni lavoro nel digitale; ho assistito alla nascita di Google, ma non mi era mai venuto in mente di scrivere quei nomi sul motore di ricerca. Un giorno ci ho provato e ho trovato delle immagini. Quella più attendibile ritraeva una valle con il titolo: “Con vista dal Circolo”. Ho stampato questa foto e l’ho portata a mio padre. Mi descriveva il posto facendo leva non su una memoria visuale, ma su una memoria fatta di azioni, di cose che faceva. Per esempio, lui ricordava il bombardamento di Dresda visto dalla terrazza, ma non si ricordava come era fatta quella terrazza e questo perché era sempre a lavoro con gli occhi bassi. Durante la scrittura del libro ho fatto molta ricerca anche da un punto di vista narrativo. Ho letto tanta narrativa sulla prigionia e sulla tematica del ritorno. Per me è stato molto più importante “La tregua” che “Se questo è un uomo” di Primo Levi. All’interno di questo libro è molto interessante, per esempio, il senso di liberazione che mio padre ha provato quando è arrivato a Königsbrück. Qui lui rinasce, si emancipa dalla sua condizione iniziale. C’è molta differenza tra i due ristoranti: da un lato c’è una sorta di trappola dalla quale lui cerca di uscire e dall’altro lato troviamo una condizione sospesa, dalla quale per gran parte del tempo è tenuto fuori. Il Circolo rappresenta un’opportunità di evoluzione. Questo romanzo racconta la storia dal punto di vista dello sguardo umano, che non sempre rispecchia un tipo di condizione negativa. Negli anfratti della guerra ci sono delle opportunità che, in questo caso, sono state pagate da milioni di persone».
A luglio 2011, finalmente parti alla ricerca della verità raccontata da tuo padre. Che cosa ti spinge ad andare fin laggiù? Da dove nasce l’esigenza di avvicinarti ancora di più a questa verità?
«Al di là della semplice curiosità, quello che mi mancava era un appiglio reale. Quello che lui mi raccontava dovevo sempre verificarlo sui libri. Mi sembrava un grande processo indiziario. Avevo bisogno di andare a toccare con mano quello che vedevo nella cartolina dipinta. Sembrava un’illustrazione di una fiaba e quello che mi raccontava mio padre era una fiaba. Mi mancava la tangibilità. Sono andato lì per vedere, per farmi un’idea spaziale».
Tuo padre ha deciso di non accompagnarti in questa tua avventura. Addirittura non voleva che partissi. Perché?
«Perché lui ha archiviato tutto nell’ottobre del ’45. Mio padre ha vissuto più o meno la stessa reticenza che hanno vissuto molti deportati. Si tratta di qualcosa che lui non ha mai risolto, qualcosa che deve rimanere sopita».
Ogni storia è sempre una verità raccontata. Questo libro racconta la personale Seconda guerra mondiale di tuo padre. Verso la fine del libro, scrivi: «La verità che ricordavo è che il diavolo, visto da vicino, non sembra poi così brutto. Si confonde tra persone che ti somigliano, si nasconde nei piccoli gesti di ogni giorno. Alzarsi, lavorare. Mangiare, bere, lavarsi, dormire, volersi bene. Cose così. E ti lascia credere che anche quella sia una vita possibile». Il male è un concetto semplice?
«Il male è un concetto semplicistico. È sempre molto difficile riuscire a definire le cose in maniera univoca. Il bene e il male, da cui derivano regole e dottrine, sono semplificazioni che ci aiutano a vivere; sono delle categorie che riescono a tranquillizzarci. Nella narrativa è più importante una storia verosimile che una storia vera perché ti tranquillizza. Il Processo di Norimberga si conclude con la condanna di una serie di cattivi assoluti e la “glorificazione” di altri personaggi, come ad esempio Albert Speer. Lui è l’architetto Nazismo, ma si fa pochi anni di carcere. Scrive un libro e diventa una mezza star. Speer non fa parte della narrativa del male perché indossa poco la divisa, è piacente, parla in inglese e non è il capo della polizia politica come Gӧring. Speer è colpevole tanto quanto gli altri perchè ha progettato il teatro sul quale è stata costruita la narrativa nazista. Se non ci fossero state le sue celebrazioni, il partito nazista sarebbe stato uno di quei tanti partiti che in qualche anno sarebbe scoparso. Il concetto di male quindi è relativo: gli ebrei perseguitati dopo la fine della guerra non ci interessano perché non fanno parte della narrativa giusta».
L’apparente tranquillità di quelle giornate trascorse nel Circolo induce Dino a chiudere gli occhi e a non voler conoscere le tragiche conseguenze del conflitto. All’interno di questa visione che ruolo recita Michele (fratello del nostro protagonista)? Rappresenta un elemento di rottura?
«No, Michele non rappresenta un elemento di rottura. Michele è il completamento di Dino. Il protagonista non è Dino. Il protagonista è una combinazione tra Dino, Michele e il nano. Dino è la bella inconsapevolezza che ti permette di staccare e sopravvivere, quella cosa che ti fa pensare al venerdì. Lui, però, è solo una parte del protagonista perché non è sempre sabato e domenica. Arriva il lunedì, arriva Michele che è la reazione all’impulso. Michele fa delle cose assurde, come inviare a Dino del cibo pur sapendo della censura postale. Tuttavia, queste due figure non bastano perché c’è un terzo elemento, il nano. Quest’ultima parte del personaggio è quella che continua a mettere la storia nel suo contesto. Questo, però, è un contesto non storicizzato, è qualcosa che poteva capire solo Dino. Il sistema di valori di Dino è basato sui valori della cucina. Lui viene coinvolto nella storia perché non riesce a mentire sul suo mestiere. Dino non fa il cameriere, Dino è un cameriere».
All’interno del Circolo, tra cuochi, camerieri e ufficiali vanitosi che sfoggiavano le loro medaglie, c’è Greta.Che cosa rappresenta Greta per Dino?
«Greta è un altro elemento di questo personaggio. Greta è tutto ciò che viene tolto a Dino: è la giovinezza, è la capacità di intessere relazioni. La prima cosa che gli viene detta di Greta è il nome, la seconda è “verboten“, cioè lei è vietata. Neanche la sua foto riesce a conservare. In questa foto solo lui riesce a riconoscere Greta. Lei qui è in volo, sta saltando. Sembra quasi una rappresentazione angelica. Anche quando il loro rapporto diventa vero, quando lei gli mette la mano nella giubba, lui l’allontana. Dino ha la forza di allontanarla perché lei è persa, è qualcosa che non può mai avere. Il nano addirittura dice a Dino di essersi fatto un film. Greta è un elemento di rottura. Noi non sappiamo se anche lei sia davvero una nazista, non sappiamo se lei indossi la divisa per opportunità o per credo. Magari le serve per proteggersi. Questo, però, non lo sappiamo perché lei non esiste. Lei fa parte di quel mondo del quale Dino non riesce a far parte, il mondo della giacca bianca da cameriere».
Dal punto di vista narrativo con la fine del conflitto assistiamo ad una “violenta” accellerazione temporale: «stava arrivando il tempo di un mondo nuovo che nessuno sapeva immaginare. La liberazione, la prigionia, la sconfitta, la vittoria, la vendetta, la giustizia, il ritorno a casa. Una nuova vita senza la morte. Uno spazio aperto e vuoto, senza più muri di protezione, senza documenti, senza regole. Liberi e senza certezze» (p.234).Questa è la guerra con tutte le sue conseguenze, questa è la libertà. Ora, la percezione che tuo padre ha dello scenario è cambiata radicalmente: improvvisamente quell’isola di pace (la cucina del circolo) è diventata «uno scheletro cavo di una balena dal quale sventolavano le lunghe bandiere bianche dei tendaggi primaverili» (p. 257). Il suo lungo viaggio di ritorno gli aveva fatto scoprire una realtà molto diversa, una verità dolorosa e crudele. In quale misura questi cambiamenti hanno segnato il nostro protagonista? Quali sono stati gli effetti?
«Il Dino finale è quello iniziale con un elemento in più: un mai risolto senso di colpa. Mio padre è molto piemontese in questo. È legato ad una sorta di generale understandment. Quando ti capita qualcosa di grande per lui non c’è mai un grande merito e un grande demerito. Finita la guerra c’è un’accellerazione, ma Dino si spegne e si lascia trascinare dall’ondata di persone. Lui non corre, ma si arrende. Vive il fatto di essersi salvato con un insopportabile senso di colpa. Mio padre è sempre stato molto fatalista e non ha mai creduto ai grandi colpi di fortuna. Il fatto di essere fuori dall’ordine universale delle cose – il fatto di non essere un fascista, un ebreo, un deportato – lo fa soffrire».
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L’autore
Torinese, classe 1966, autore e regista teatrale in gioventù, Livio Milanesio è passato attraverso il cinema d’animazione per approdare allo storytelling digitale per grandi aziende. Ha insegnato narrazione all’Istituto Europeo di Design e linguaggi digitali alla Scuola Holden. Scrive per testate italiane e estere di vario genere. Hobby: crescere tre figlie.
Trama del libro
La fine della Seconda guerra mondiale è nell’aria (1944), ma nella campagna piemontese il vecchio Benito Sereno spera che duri ancora quel tanto per intascare una lauta ricompensa, consegnando al regime fascista tre “articoli” interessanti: un partigiano (Michele), suo fratello minore Dino che ha l’aspetto di un ebreo, e Teresa, la madre dei due ragazzi che li protegge con le unghie e con i denti. Dino viene deportato a Königsbrück e Michele a Chemnitz. Nel suo viaggio Dino è accompagnato da uno strano personaggio un nano “di eccezionale altezza” che gli fa da guida. A Königsbrück comincia una prigionia “dorata” nelle cucine di un circolo ufficiali dell’esercito tedesco che rafforza nel ragazzo l’attitudine a distogliere lo sguardo dall’orrore che lo circonda. Nella palazzina del Circolo stringerà amicizie, imparerà a cucinare e intreccerà una delicata storia d’amore. Ma la guerra incombe: arrivano i bombardamenti, la minaccia della liberazione sovietica, il crollo della Germania. Il Circolo viene evacuato e Dino ritrova Michele, segnato dalla prigionia, e vagando per la Germania distrutta è finalmente obbligato a vedere tutto quello che gli era stato risparmiato: le fosse dei cadaveri a cielo aperto, le vittime delle deportazioni, la disumanità, la distruzione. Tratto da una storia vera.
Finalista del Premio Nazionale di Letteratura Neri Pozza 2017
«Romanzo dalla lingua pulita e precisa, “La verità che ricordavo” offre al lettore il ritratto tenero e allo stesso tempo spietato di un antieroe che per ingenuità o solo per vigliaccheria chiude gli occhi per non vedere, non chiede per non sapere, e che la Storia si incarica di riportare alla dura realtà della vita».
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