John Fante, lo scrittore più italiano d’America

– Gabriele Nero – Il giovane Holden di Salinger, per giudicare uno scrittore, aveva un metodo semplicissimo: iniziava a leggere un libro, creava un dialogo immaginario con l’interlocutore-scrittore, del quale sapeva poco e nulla, quindi, finiva di leggere il libro.  Poi pensava: “Questo potrebbe mai essere mio amico?!” oppure “Gli farei mai una telefonata per farmi raccontare i fatti suoi?!”. Beh, chi vi scrive sarebbe stato ore ad ascoltare John Fante raccontare le storie impossibili della sua famiglia, con John Fante si sarebbe fatto una gran mangiata di spaghetti accompagnata da una buona bottiglia di vino e con John Fante ci sarebbe uscito la sera per andare a donne o anche solo a bere qualcosa in qualche bar assurdo di periferia!

Proprio dalla periferia del mondo iniziò la storia di John Fante (ma anche quella del suo alter-ego letterario Arturo Bandini), da Torricella Peligna, un paesino sulle montagne dell’Abruzzo, dal quale il padre Nick Fante, muratore, partì ad inizio Novecento per cercare fortuna in America. La famiglia Fante si stabilì  a Denver, in Colorado, regione del Mid-West, dove gli inverni sono lunghi e pieni di neve, alla periferia dell’ american dream, insomma, nell’Abruzzo d’America. Qui i Fante costruirono la loro Little Italy, fatta di spaghetti e vino rosso, di debiti di gioco e anziane donne vestite di nero,di messe domenicali e di bestemmie in italiano.

John Fante , però, era un ambizioso, e nonostante avesse vent’anni proprio negli anni della Grande Depressione, non smise mai di credere nel proprio talento.   Fante e Bandini avevano un unico grande sogno: Los Angeles, la California.

In tutte le storie di Fante,  anche in altre  in cui il protagonista non si chiama Bandini (in alcuni romanzi chiama il protagonista Henry Molise) c’è sempre un autobus da prendere, un viaggio da iniziare, un luogo da raggiungere, una città nella quale poter dimostrare quanto vale Arturo Bandini, e che paradossalmente, non riesce a raggiungere quasi mai. Giocatore di baseball, sceneggiatore di Hollywood, chierichetto o scrittore, i protagonisti delle sue opere hanno tutti la presunzione, tipicamente italiana, di essere  i migliori in tutto ciò che fanno, ma che per  motivi più svariati (la sorte,le origini umili, italiane,  e cattoliche che non aiutavano di certo) non riuscivano mai a dimostrarlo. Dopotutto anche suo padre  Nick era il miglior muratore di Denver… se solo lo avessero fatto lavorare!

John Fante non ha raggiunto il successo planetario in vita. Ma non pensate al tipico scrittore bohemien morto povero e di stenti. Sempre grazie al genio italico, alla fine Fante fece successo nel mondo del cinema, come sceneggiatore di Hollywood, e visse una seconda parte della vita da ricco signore americano, con una bella moglie, quattro figli, una villetta a due piani in California ed una macchina decappottabile.

“Bandini è un terrone!”, ha detto Capossela (uno dei primi italiani a scoprire John Fante). Come dargli torto!? Come tutti i terroni Bandini è testardo, presuntuoso, mammone, donnaiolo e bevitore, ma è allo stesso tempo uno vero, generoso, istintivo e passionale! E’ un professionista dell’arte di sapersi arrangiare e dell’ostentazione del suo supposto talento, del quale nessuno ne ha prova, ma del quale lui è così convinto che finisce nel convincerne anche il lettore.

Come in un transfert, il lettore viene convinto più che dallo stile di Bandini, dallo stile di Fante, maestro di sintesi ed eleganza. Nella prosa fantiana le frasi sono estremamente brevi,  dirette e semplici, e si susseguono con un ritmo incalzante, con un ché di sentenza. Leggere Fante è facile. Un suo libro potete regalarlo ad un ragazzo di 14 anni come ad un nonno di 80, ad uno di quei lettori occasionali che legge un libro all’anno, come ad un laureando in filosofia! Leggere Fante è divertimento, leggerezza, è confrontarsi con la voglia di realizzarsi di una generazione massacrata da due guerre, il crack del ’29 e con famiglie smembrate dalla prima migrazione di massa.

Non penso che, però, tutti possano leggere John Fante! Non penso che possiate capirlo appieno  se non avete avuto testimonianze dirette o indirette di qualche forma di migrazione. Non credo che, purtroppo, Fante finirà tra i libri di letteratura americana (troppo italiano per essere capito dagli americani di oggi), così come non entrerà in quelli di letteratura italiana (scriveva in americano, è nato a Denver, scartato!).

L’Italianità di Fante è più un senso di ribellione. John ama profondamente l’idea di America meticcia, come the land of dreams, e odia profondamente gli americani che tradiscono quest’ideale, che lo discriminano, lo deridono, lo chiamano “dago”! Alla bambina smorfiosa e ricca, che sbandierava la nobile discendenza da Mary Stewart, il piccolo Bandini rinfaccia il fatto di essere il pronipote del bandito Mingo di Torricella Peligna. John idealizza tanto Torricella Peligna e l’Italia che questo diventa un rifugio identitario attraverso il quale difendersi e contrattaccare!

Sono spassosissime le lettere dall’Italia, raccolte nel libro “Tesoro, qui è tutta una follia!”, nelle quali Fante racconta dei suoi viaggi in Europa a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, dove la sua visione bucolica dell’Italia  post risorgimentale svaniva nella Roma filo americana di quegli anni, tra la Dolce Vita e il Boom (tra l’altro decise di non visitare Torricella Peligna, pur soggiornando a poco piú di 200km, a Roma, proprio per non correre il rischi di venirne deluso). Forse proprio in questa non-identità, in questo ego che a volte si autoincensa e a volte si insulta, a volte italiano, a volte americano, a volte conservatore, a volte democratico, altre anarcoide, sta il successo del personaggio letterario di Arturo Gabriel Bandini, unico, vero e troppo moderno anche per noi!

Migrazioni, guerre, seconde generazioni (o meglio nuove identità meticce), crisi economica e conseguente disoccupazione, tutte tematiche sulle quali oggi, forse più di ieri, siamo obbligati a riflettere. Potete immaginare quindi come a trent’anni dalla sua morte, la voce di John Fante, rimbombi forte attraverso i milioni di lettori nel mondo, che come un prezioso tesoro nascosto, hanno scoperto uno dei più grandi artisti del Novecento.

Il lato che più ammiro di Fante, e quindi di Bandini, è  la sua feroce autocritica. Infatti, proprio quando, sia John che Arturo, raggiungono il loro sogno si rendono conto presto che forse non era proprio quello che avevano desiderato nelle fredde notti del Colorado. Una volta raggiunta la California incominceranno a fantasticare su una nuova vita a Roma tra gelaterie, Via del Corso e migliaia di piccole automobili Fiat che sfrecciano a 100 km/h per viuzze dove non passerebbe nemmeno una mulo col carretto.

Nonostante Bandini avesse sofferto il gelo e la fame in gioventù, l’emarginazione per le sue origini italiane, si fosse trovato senza un dollaro  a dormire nelle barche  abbandonate in riva all’oceano, le sue pagine più amare sono senza dubbio quelle in cui Bandini viene assunto e lautamente pagato da un colosso cinematografico per non scrivere (ne “I sogni di Bunker Hill”). Infatti Bandini amava troppo la vita per stare chiuso in un ufficio, dove tra le altre cose non riusciva a scrivere nulla che soddisfacesse  né lui né i suoi produttori. “I can’t get no satisfaction” sarebbe stato l’inno della generazione dei figli di Fante, eppure, come cantavano gli Stones, Bandini sentiva che stava sprecando il proprio talento, e l’unica cosa che riusciva a fare era mettersi nei guai seducendo segretarie ed agenti letterarie. Così Bandini, a mo’ di francescano, molla tutto e torna nella stanza  della pensione da quattro soldi dalla quale era partito e comincia a scrivere. La saga di Bandini si conclude  proprio nel momento in cui il personaggio letterario e lo scrittore si incontrano per la prima volta davanti ad un foglio bianco e ad una macchina da scrivere.

Ecco un estratto di quel momento, uno degli ultimi paragrafi che nel 1982, John, oramai cieco e mutilato a causa del diabete, dettò alla moglie Joyce:

“Ma supponiamo che avessi fallito. Supponiamo che avessi perso tutto il mio magnifico talento. (…) Cosa mi sarebbe successo? Sarei andato da Abe Marx e sarei diventato aiuto cameriere? Avevo diciassette dollari nel portafogli. Diciassette dollari e la paura di scrivere. Mi sedetti davanti alla macchina per scrivere e mi soffiai sulle dita. Per favore Dio, per favore Knut Hamsun, non abbandonatemi adesso. Cominciai a battere e scrissi (…)”.

John Fante ci ha raccontato che non importa se sei italiano, filippino, americano, vecchio, quindicenne, squattrinato, ricco con una villa a Malibù. Ciò che importa è rimanere vivi, è avere una California da sognare e una Torricella Peligna da portarsi sempre dentro.

Gabriele Nero è libraio ed editore di una giovane casa editrice indipendente, di chiara connotazione beat, nel cuore di Valencia: El doctor Sax – Beat and books.

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