Tra le coste della Tunisia e Lampedusa, al di fuori della realtà mediatica, l’attento sguardo di Irene Dionisio si posa su un’«umana» realtà fatta di emozioni, di ideali da seguire, di sogni ad occhi aperti, di orizzonti mai raggiunti. Questa è la realtà dei migranti, ma è anche quella di chi vive da sempre nelle terre di confine, come Mohsen e Vincenzo. Attraverso questa intervista, Irene ci racconta la genesi del suo documentario e le ricerche che ha svolto prima delle riprese. Ci parlerà, inoltre, dei protagonisti, della loro amicizia e delle significative riflessioni che accompagnano le loro vicende.
Regia: Irene Dionisio
Anno di produzione: 2015
Durata: 60′
Tipologia: documentario
Genere: sociale
Paese: Italia/Francia
Produzione: Mammut Film, Vicky Films, a.titolo; in collaborazione con Rai Cinema, France Television, France 3 Corse
Distributore: n.d.
Data di uscita: n.d.
Formato di ripresa: HD
Formato di proiezione: HD, colore
Titolo originale: Sponde. Nel Sicuro Sole del Nord
Sponde. Nel sicuro sole del Nord è un documentario che racconta la storia di un’amicizia nata tra due uomini, Mohsen e Vincenzo, che vivono sulle sponde del Mediterraneo: Zarzis (in Tunisia) e Lampedusa. Accomunati dal medesimo senso di umanità, i due protagonisti decidono di prendersi cura di quei sogni senza nome e senza più vita, naufragati e arrivati dal mare in seguito alla Primavera Araba. Entrambi isolati dalle rispettive comunità di origine per le scelte prese, i nostri protagonisti trovano rifugio in un intenso scambio epistolare che lascia spazio a significative riflessioni intorno al senso antico e profondo di questo eterno migrare.
(Intervista a cura di Luca Greco)
Come è nata l’idea di girare questo documentario? Parliamo un po’ della sua genesi e delle ricerche che hai svolto prima delle riprese.
«Stavo preparando un corso sul documentario legato al tema dell’immigrazione con un’insegnante di religione. Durante la preparazione del corso l’insegnante mi ha fatto leggere un articolo di Ammesty che raccontava la storia dei due personaggi che sarebbero poi diventati i protagonisti del mio documentario. L’articolo parlava del legame di amicizia che li univa, senza però approfondire ulterioremente. Dopo averci riflettuto e aver fatto le dovute ricerche ho deciso di raccontare questa storia attraverso un documentario di creazione. Il tema della migrazione lo affrontavo già nel film precedente (La fabbrica è piena), ma in questo caso il soggetto era meno crudo. Vi è una grande fonte di speranza, perché racconta una storia di umanità epistolare e d’amicizia e non di disperazione. Sono andata così, completamente ossessionata da questa storia, prima in Sicilia a conoscere Vincenzo e, poi, in Tunisia da Mohsen. Ho trascorso svariato tempo con loro, andando a girare in più riprese. Quindi ho cercato tutte le strade possibili per realizzare il mio film, che è stato poi prodotto dalla Mammut Film, Vicky Films ed a.titolo».
Tra le coste di Lampedusa e quelle della Tunisia il destino pone i due protagonisti, Vincenzo e Mohsen, davanti alla medesima sceltà: prendersi cura di ciò che resta di quei sogni definitivamente interrotti e restituiti dalle onde mare (cadaveri e oggetti di vita quotidiana dei poveri migranti che hanno perso la vita durante il viaggio verso un orizzonte migliore). Questa scelta favorisce la nascita del rapporto epistolare tra i due uomini, ognuno con il proprio vissuto e con il proprio credo religioso, ma entrambi isolati dal proprio contesto sociale a causa della stessa idea di umanità. Irene, quanto è importante per i nostri protagonisti seguire fino in fondo questi ideali?
«Entrambi lo fanno con empatia spontanea, generosa ed immediata. Sono puri nelle loro scelte e a loro modo folli. Per me in questa spontaneità risiede la forza dell’essere umano. Una sorta di legge animale più forte di ogni altra cosa nel dramma sofocleo».
Oltre gli sterminati confini tracciati dal mare si staglia all’orizzonte una «leggendaria» meta per le popolazioni in fuga dalle guerre che si combattono nei loro Paesi. Durante una suggestiva scena del documentario, Mohsen fa una significativa riflessione: «L’Italia si trova oltre l’Est, il sole viene da Est, le onde e il mare vengono da Est, l’orizzonte è per noi molto molto importante. L’orizzonte è come una divinità che viene dall’altra sponda. Dove c’è Dio ci sono i regali, la speranza, gli altri, noi stessi, l’ignoto, l’avventura». Quest’idea di orizzonte che si sviluppa all’interno del documentario è un concetto dinamico oppure rappresenta un approdo definitivo, un «porto salvo» (come dice il parroco di Lampedusa durante la processione)?
«L’orizzonte come raccontato in questo film ha una doppia declinazione. È sicuramente sia il porto salvo agognato durante la traversata, ma anche prima della difficile partenza sia un orizzonte dinamico che può cambiare velocemente a seconda delle necessità reali una volta “riusciti ad arrivare. L’orizzonte del mio film è una sorta di meta astratta, psicologica e universale che dovrebbe accomunarci tutti».
È possibile tracciare un’analogia tra l’orizzonte, così inteso, e quel «sogno ad occhi aperti» blochiano?
«Naturalmente si. È proprio un luogo legato al nostro inconscio e alla volontà di altrove che tutti abbiamo provato almeno una volta nella vita sia per motivi gravi, sia per motivi futili. Il viaggio è insito nel nostro essere umani e non solo “migranti”. Dobbiamo pensare al viaggio come un’esigenza di andare verso un “sole sicuro”. Ogni persona è “migrante” nella sua vita e per questo il fenomeno deve essere inquadrato come una cosa fisiologica non come un problema sociale».
A proposito di orizzonti da seguire e di sogni da realizzare, quali sono i tuoi orizzonti più prossimi in campo cinematografico? Parliamo dei tuoi progetti futuri.
«Ho finito di girare questa fine estate il mio primo film lungometraggio di finzione. Ne sono molto felice, è stata un’esperienza umana ed artistica senza precedenti. È stato come fare un primo figlio. Un giorno, proprio mentre stavo iniziando a ragionare con Tempesta film sul soggetto definitivo sono entrata al Banco dei Pegni e sono stata colpita dalla densità di significato e di vita di questo ufficio del debito. Da tempo stavo investigando, prima per provenienza sociale e familiare, poi per studio l’importanza delle pressioni economiche sulla vita degli individui. Il Banco dei Pegni è diventato per molti mesi il mio luogo d’osservazione, il campo di ricerca del mio film. Proprio come per “Sponde” gli oggetti in questo nuovo progetto assumono moltissimo significato e diventano perno di differenti storie incrociate».