MrFijodor

Impegno sociale, ecologia e dialogo con lo spazio urbano. Benvenuti nel meraviglioso mondo di MrFijodor

Installazioni, grandi murales, performance: negli ultimi anni, la ricca produzione artistica di MrFijodor si è distinta per la grande attenzione ai temi dell’impegno sociale e della sostenibilità ambientale. In questa intervista, MrFijodor ci accompagna in un affascinante viaggio nel suo immaginario artistico, esplorando le sue scelte stilistiche, i personaggi delle sue opere, il dialogo con lo spazio urbano e il potere trasformativo dell’arte nel promuovere un cambiamento sostenibile nella società.

Intervista a cura di Luca Greco

Perché “MrFijodor”? Qual è il significato che si nasconde dietro questo nome?

“Il significato è semplicissimo: si tratta del mio nome di battesimo. È stato deciso da mia madre perché è una grande appassionata di Dostoevskij. Il mio nome vero è Fijodor Benzo e poi non ricordo bene come sia nata l’idea di aggiungere “Mr” davanti. Se tornassi indietro, forse userei solamente il mio nome e cognome. Continuo a usarlo perché l’incastro delle lettere M R F I J O funziona bene per farsi trovare subito nelle ricerche. Mi piace pensare che sia tutto unito. Mi immagino un “MRHJIODOR” tutto insieme, come se fosse un gioco di lettere e suoni divertenti”.

Nella tua biografia ho letto che hai realizzato il tuo primo graffito nel 1994, nel lontano 1994. Che cosa ricordi di quel momento?

“Ricordo di aver recuperato delle bombolette spray da un compagno di scuola: suo padre aveva una ferramenta. Erano colori molto particolari, dei “bellissimi” beige, verdone e blu, già complicati da usare per un artista bravo, figuriamoci per un principiante come me. Ero andato in un capannone, forse una bocciofila, dietro un cimitero nella mia città, Imperia, e nel giro di tre giorni feci due disegni. Disegni mai finiti, quelli che potremmo chiamare i famosi “non finiti liguri”, mettiamola così. Ricordo che c’erano quei mattoni con le righe: appena passavo lo spray, il colore si infilava nelle scanalature e si espandeva. Più guardavo il risultato, più pensavo: “È una m…a, fa proprio schifo”. Mi vergognavo così tanto che per più di un anno non ho più toccato uno spray. Non ho mai fotografato quei disegni. Così, ho ricominciato a disegnare con l’idea che dovevo migliorare.

MrFijodor_foto

Dopo qualche mese decisi di andare a un evento di murales dove c’era anche Matteo Zacchino, che all’epoca scriveva “SPOCK”. Tornato da quell’evento, decisi di lavorare di nuovo su un disegno insieme a un mio compagno di classe, ma anche in questo caso ho pensato: “Che schifo!”. Guardavo il mio amico che usava l’oro, creava sfumature, e mi sentivo ancora lontanissimo dal raggiungere quel livello. Avevo ancora molta strada da fare. Ne avevo mangiare ancora di focaccia per imparare. Diversi mesi dopo ho iniziato a dipingere con più costanza. Credo fosse il ’95, perché nel ’96 avevo già formato una crew con alcuni ragazzi del ponente ligure. In quel periodo dipingevo con maggiore frequenza, ma c’erano sempre tante sconfitte. Come dice Rocky: “il campione non è chi non va giù, ma chi si rialza sempre”. 

Prima facevi riferimento alla tua crew del Ponente Ligure e ai tuoi luoghi d’origine. Che rapporto hai con le tue origini?

“Sono cresciuto al mare, a Imperia, immerso tra mare, ulivi e le montagne dell’Alta Val Tanaro sullo sfondo. L’ambiente in cui sono cresciuto era piuttosto rurale, quindi iniziare a fare graffiti è stato qualcosa di davvero “esotico”. All’inizio, infatti, uno dei problemi era proprio trovare muri grigi da dipingere: qua non ce n’erano praticamente. C’erano i muretti a secco, c’erano gli scogli, ma non c’erano muri adatti per i graffiti.

Devo dire che i miei luoghi me li sono portati sempre dietro, nel mio immaginario. Nelle mie creazioni ci sono sempre animali. Soprattutto in quei periodi in cui vivevo a Ormea: facevi la doccia e trovavi uno scorpione, entravi in camera e c’era un ragno gigante; uscivi e trovavi tafani, vipere, e, se ti addentrarvi nel bosco, incontravi il cinghiale. Nel mio immaginario ci sono tutti questi animali che vedevo. Poi, essendo un po’ orbo, non è che li vedessi così bene. Quindi un un cinghiale diventava un capriolo, oppure un capriolo ciccione o un cinghiale dimagrito. Il mio immaginario è un grande caos dove mettevo un po’ di tutto”.

E invece che rapporto hai con la città dove vivi ora (Torino)?

“Allora, la città in cui vivo, io a differenza dei torinesi, l’ho scelta. La mia passione per questa città è nata verso la fine degli anni ’90 e nei primi anni 2000. All’epoca, era una città molto più cupa, con tantissimi luoghi abbandonati, tantissimi muri e con un’atmosfera più rustica, economica e operaia rispetto a com’è oggi.

Mi sono appassionato a questa città forse perché c’erano i Subsonica di quegli anni, forse perché c’erano i Murazzi, con quel tipo di musica elettronica underground che dovevi andare un po’ a cercare. I piccoli club con concerti punk erano un altro aspetto che mi ha coinvolto. Quella Torino era la città che mi ha fatto innamorare, e mi piace ancora oggi esplorarla.

Apprezzo il fatto che sia una città multiculturale, dove puoi essere torinese ma anche portare con te il tuo bagaglio culturale. Io mi sento ligure, ma sono anche torinese. La tua identità si somma a quella del territorio e si mescola”. 

A proposito di spazi urbani. Le tue creazioni spesso dialoga con lo spazio urbano. Come scegli le location per i tuoi murales? E quanto è importante per te l’interazione tra arte e ambiente urbano?

“Soprattutto negli ultimi anni, spesso mi propongono superfici, quindi è difficile che sia io a sceglierle. Nella pratica più spontanea, invece, è diverso; i due contesti sono distinti. Quando faccio degli “illegali”, cerco di capire quali sono i luoghi più adatti, che normalmente sono anche i posti dove danno meno fastidio. È un equilibrio che richiede di saper leggere l’urbe delle nostre città, il contesto e la situazione. Per quanto riguarda la parte più organizzata, legata ai muri legali, normalmente ricevo delle proposte. In questi casi, il cliente, l’evento o il festival offrono un contesto specifico. Una sua storia. È poi da lì che iniziò con la progettazione. Durante questa fase, non sono molto preciso.

Mi piace iniziare con un’idea e poi creare un canovaccio, una base che seguirò più o meno, ma che voglio poi poter cambiare o modificare in corso d’opera. Anche perché poi non sempre ho il tempo di fare un sopralluogo o di conoscere il territorio. La mia conoscenza del territorio si sviluppa durante il processo creativo, e ci sono molte piccole chicche che posso aggiungere nei dettagli. Per esempio, se di fronte al muro c’è una persona con il cane che ogni giorno mi porta la colazione, il cagnetto potrebbe finire nel murale. Oppure, se scopro che ci sono delle foglie di castagno perché nei paraggi c’è un boschetto di castagne, allora potrei decidere di includere delle foglie di castagno nel mio lavoro. Piccole cose che vanno a modificarsi.

In alcuni lavori mi piace inserire dettagli ironici. Per esempio, l’anno scorso a Vimodrone ho disegnato un pesce con la scritta “Il branzino del Naviglio”, una frase volutamente ironica che rifletteva bene l’atmosfera di quei giorni. Ogni giorno, dopo aver finito di lavorare, andavo al baretto di fronte per una birretta, dove incontravo i “tamarri di zona” con cui avevo fatto amicizia.

Ricordo che mentre dipingevo, sentivo quei ragazzi commentare: “Uè, figa, ma cosa sta a fare questo qua? Uè, ma sta m…a?” Poi, mano a mano che il disegno prendeva forma, i commenti cambiavano: “Uè, figa, ma è figo!”. Durante quei momenti mi piaceva lasciarmi travolgere da quel mondo di periferia e mixarlo con il mio lavoro perché anche questo è un modo di interpretare il contesto contemporaneo. Spesso noi ci dimentichiamo che i luoghi non sono immutabili”.

Abbiamo appena parlato del dialogo delle tue opere con il contesto urbano. A proposito, quanto conta la componente “fumettistica” nelle tue creazioni? Questa componente facilita la comprensione dei tuoi messaggi?

“Il lato fumettistico è una parte essenziale del mio lavoro, che si sviluppa in modo lineare. Io sono un disegnatore classico, lavoro con Outline, cioè con il contorno faccio tutto. Sono del ‘79, quindi sono cresciuto con i cartoni animati giapponesi, i fumetti di Topolino e Kenshiro. Mi piace produrre immagini riconoscibili, anche se poi le mixo con il mio modo di raccontare, che io definisco un po’ grottesco: quindi all’apparenza allegro, ma con un lato nascosto un po’ più cupo.

Mi lascio trasportare dalla mia parte emotiva, meno ragionata di quanto si potrebbe pensare. Un altro aspetto su cui mi concentro molto è l’errore. Se disegno un soggetto con un braccio un po’ più lungo o un occhio strabico… be’, è praticamente come me: sono strabico, pelato, un po’ orbo, e ho una piccola protuberanza sul naso. Tutti questi difetti mi rendono ciò che sono, anche a livello caratteriale. E in fondo, questa cosa è così per tutti. C’è chi è più rotondo e chi più allungato. Non cerco la perfezione, né lavoro su qualcosa di fotografico o pulito; anzi, cerco un po’ il contrario”.

Solitamente i tuoi lavori sono contrassegnati da una critica sociale molto marcata e da un dichiarato impegno ecologico. Credi che l’arte possa realmente influenzare il cambiamento?

“Penso che siano le azioni a influenzare di più. Io, per esempio, uso pochissimo l’auto e solo da pochissimo. Anche se ho la patente dal 1999, non ho mai guidato davvero. Tre anni fa, però, è venuto a mancare mio padre e così ogni tanto prendo il Pandino e guido. È comunque raro. Di solito, quando realizzo un murale gigante, mi sposto in bicicletta o abbino treno e bici. Penso che questo abbia un valore: se posso fare a meno dell’auto, lo faccio, anche se magari sono stanco. 

Credo che questa pratica sia un messaggio più forte del disegno stesso che sto facendo. Sono le azioni che contano davvero. Se organizziamo un summit su come “Salvare il mondo” e ci arriviamo tutti in aereo, magari con un jet privato, quale messaggio stiamo dando?

Io uso gli spray, è vero, ma per una facciata gigante ne uso al massimo dieci o venti. La tecnica che utilizzo permette di usarne pochi. Sono consapevole che gli spray inquinano, ma utilizzare vernici “ecologiche” che sbiadiscono in poco tempo e richiedono rifacimenti continui non è forse uno spreco di energia e una forma di consumismo? Alla fine, sono le pratiche quotidiane che fanno davvero la differenza. Le opere d’arte devono creare uno spirito critico, ma sono le tue azioni a riflettere quello che è, in fondo, la realtà”.

Nel 2019 hai realizzato a Torino per TOward 2030 un grande capodoglio composto da spazzatura, trasformando il più grande mammifero acquatico del Pianeta Terra nel simbolo della fragilità dell’ecosistema oceanico e dello sfruttamento eccessivo delle risorse marine. Perché proprio il capodoglio? Che cosa rappresenta per te questo animale?

“Ho scelto di rappresentare questa mega balena per vari motivi. Innanzitutto, perché è il mammifero più grande al mondo, ma anche uno dei più fragili. Poi, sempre per via delle mie radici, il Mar Ligure è la zona del Mediterraneo più ricca di cetacei perché ha una profondità media molto alta.

Mi ha sempre affascinato sapere che, quando guardavo quel mare, sotto la superficie c’erano le balene, anche se non ne ho mai vista una. Avevo pensato anche all’acciuga, ma è così piccina e poi te la trovi sempre nel piatto e te la magni.

L’acciuga è visibile, mentre la balena sembra quasi un’entità spirituale. Con quest’opera volevo lanciare un messaggio un po’ critico, soprattutto in un contesto come Porta Palazzo, dove effettivamente c’è tanta spazzatura. In Italia la plastica è ovunque e il mare è solo uno dei tanti luoghi. Mi ricordo di aver creato anche dei sacchetti che sembravano delle meduse. Un dettaglio che, però, la gente tende a ignorare è la presenza nel murale di una nave cargo

L’obiettivo è quello di indurre a ragionare: abbiamo davvero bisogno di quel giochino che arriva dalla Cina o di quel paio di pantaloncini nuovi prodotti in Bangladesh? Ne ho davvero così bisogno? Cioè, ho sempre bisogno di avere una maglietta nuova? Mi chiedo: è così necessario?

Tutto ciò che non usiamo davvero diventa rifiuto e la nostra società si basa su questo principio, secondo il quale tu più consumi, più guadagni, più consumi, più scarti produci. È tutto un ciclo. Poi sono ragionamenti. Sono ragionamenti che spero possano stimolare le persone a riflettere. Poi, in mezzo, ci metto anche un po’ di fantasia: per esempio, in fondo ci avevo messo anche una slot machine per rappresentare questa idea del consumismo: soldino, dlìn, vinco? No. Soldino, vinco? No. Soldino, vinco? Yeah, andiamo a comprarci una bottiglia d’acqua”.

Finora abbiamo toccato temi molto importanti che hanno a che fare con lo spazio urbano, l’ecologia e quindi un’arte che si interroga sul futuro. Ecco come vedi il ruolo della street art nella cultura contemporanea? Che rapporto ha la street art con il futuro? 

“È difficile darti una risposta, anche perché l’arte urbana, la street art e i graffiti, da forme di protesta si sono trasformati in un mezzo di potere, per dire poco. Io ho cominciato a fare graffiti perché mi affascinava un’estetica completamente diversa da quella che vedevo nelle chiese o nei sistemi artistici più convenzionali.

Adesso vedo che l’arte urbana di un certo tipo, soprattutto il muralismo contemporaneo è diventata oggi un’estetica che incarna tutto quello da cui io sono scappato: la faccia del calciatore, del politico, dello scienziato fatta gigante. Messaggi solo positivi. Ma se vogliamo mandare anche messaggi negativi. Perché no? Perché non possiamo parlare di morte? Perché non possiamo parlare anche di cose brutte che succedono nel mondo o di cose che dobbiamo affrontare? Pochi sono gli artisti che provano a fare un passo in più, ecco. Non che io sia il guru. Ci mancherebbe altro. Non lo penso. Penso di essere uno dei tanti.

Cerco di avere il mio segno distintivo, il mio modo di vedere le cose, ma sono assolutamente uno dei tanti. Sono pochi, pochissimi quelli che escono dalla massa. Mi spiace, invece, vedere troppi artisti che si piegano a qualsiasi volere. Manca proprio quella “violenza rivoluzionaria” che forse era presente una volta”. 

Domanda ricorrente nelle mie interviste. MrFijodor, che cos’è per te la bellezza?

“Un artista per quanto può fare delle cose, la natura le ha fatte meglio, con più creatività, con più fantasia, con più giustezza e con più equilibrio. Infatti, io non ho mai cercato la bellezza perché è una chimera. La bellezza c’è già, è qua. Guarda che bella questa luce autunnale di questa grigia Torino che taglia questo luogo post industriale. La bellezza cos’è? Mi immagino Praga con la nebbia, ma anche il lungomare di Napoli con il sole. Sono due cose completamente diverse, ma sono entrambe di una bellezza incredibile. Forse è dentro di noi e dobbiamo trovarla nel nostro quotidiano. La bellezza è stupirsi ogni giorno di quanta ce n’è malgrado tutto. È come quando parlavi con gli anziani che ti raccontavano della guerra. Tra la fame, il sangue e la violenza c’era della bellezza da tirare fuori. Se ci fossero due ragazzi palestinesi qui, magari ti racconterebbero la stessa cosa. Magari quando sono due settimane che non mangi, che pensi di morire e ritrovi il tuo amico che pensavi fosse morto ed è ancora vivo e magari sono arrivati degli aiuti e ti hanno dato del cibo.

Forse la bellezza è anche quella cosa lì, magari è abbinata alla speranza e non è solo un fattore estetico, ma anche emotivo, un mix, un tutt’uno”.


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