Stefano Stranges

“The victims of our Wealth”. Intervista a Stefano Stranges

All’interno di quest’intervista Stefano Stranges mi racconta il suo originale progetto fotografico, intitolato “The victims of our Wealth (finalista al Sifest Premio Pesaresi 2016, Menzione d’onore International Photographer of the Year 2017 e silver medal al Tokyo International Photography Award TIFA), un vero e proprio viaggio ai confini dell’umanità, dove ha inizio la filiera del materiale tecnologico.

Intervista a cura di Luca Greco

Stefano, tu sei un fotoreporter. Alcuni dei tuoi reportage sono stati pubblicati da importanti  quotidiani e Periodici, come Rolling Stone, Il Reportage, Il Manifesto, La Stampa. Come si diventa fotoreporter? Ti va di raccontarmi il tuo percorso?

“Se penso ad una delle principali avvisaglie che mi hanno portato a svolgere questo mestiere, credo sia stata la curiosità che avevo fin da bambino, immagino quasi fastidiosa per chi mi stava vicino. Ad esempio il passeggiare per una strada e immaginarsi chi poteva vivere in quelle finestre illuminate di vita privata; “chissà chi vive là dentro, chissà cosa fa. Ecco, credo che nel mio caso tutto possa partire da lì.

A parte questa personale riflessione, non credo ci sia una regola precisa per diventare un fotoreporter, se non quella di fare tanta esperienza sul campo, di osservare i lavori di luminari dell’informazione visiva, per poi però cercare di acquisire un proprio stile che sia altrettanto (o ambire al fatto che lo sia) funzionale a raccontare al meglio una storia. Il mio percorso personale è iniziato nel 2002 quando feci i miei primissimi scatti. Erano fotografie, scattate con rullini di vario tipo, di azioni quotidiane totalmente banali. Mi attirava ciò che alle persone scappava dall’inquadratura della vita quotidiana. In sostanza quello che al giorno d’oggi tanti catturatori compulsivi di immagini fanno con il cellulare, perchè ora non costa nulla premere un bottone. Amavo già viaggiare e conoscere le storie della gente che incontravo, delle culture che visitavo e dei paesaggi che avevo davanti, ma preferivo memorizzarle per non distrarmi dalla realtà.

Fondamentalmente fino ad allora odiavo la fotografia.

Il mio primo periodo fotografico fu da auto-didatta. Sperimentavo, passando intere notti in una rudimentale camera oscura. Dopo circa un anno partecipai al mio primo corso di fotografia, e quasi subito iniziai come assistente di un fotografo, tra matrimoni e fotografie in studio. Insomma, iniziavo ad innamorarmi. Passai diversi anni, fino al 2011, ad occuparmi principalmente di fotografia artistica e commerciale, legata ad editoriali di moda, pur facendo già reportage di viaggio ed eventi per aziende e agenzie, cosa che in parte faccio ancora oggi. In quell’anno però tornò lampante la voglia di raccontare storie reali, sviluppare progetti che avessero a che fare con la vita, in tutte le sue sfumature. Iniziai così il mio lavoro da reporter, dopo un masterclass con Alex Majoli, dell’agenzia Magnum, il quale più che insegnarmi a fotografare, mi ha insegnato a cercare l’ossessione che stà dietro tutti gli scatti”.

Come scegli i tuoi soggetti?

“Solitamente scelgo storie che sono poco coperte dai media mainstream. Cerco di mostrare storie poco raccontate e che credo debbano per qualche motivo, più o meno nobile, essere messe in luce”.

La maggior parte dei tuoi lavori affrontano tematiche sociali. Recentemente sei stato impegnato in un progetto sulla filiera del materiale tecnologico, a partire dalle aree minerarie di Coltan in Africa. Da questo progetto è nata la mostra itinerante “The victims of our Wealth”. Come nasce questo progetto? 

“L’idea di affrontare il tema di “The victims of our Wealth” è nato il giorno in cui sono stato invitato a partecipare ad un incontro al CISV di Torino con John Mpaliza, un attivista Congolese. John ha raccontato la storia drammatica della sua terra massacrata.

La Repubblica Democratica del Congo è uno dei paesi più ricchi al mondo per la quantità di materie prime nella terra. La stessa terra è da anni fradicia di sangue sparso a causa proprio di questa ricchezza. Con il suo intervento voleva sensibilizzarci e chiedere aiuto per una grande marcia per la Pace che stava organizzando. Era il novembre 2015. Grazie a quell’incontro ero venuto a conoscenza di cosa c’era dietro il business del Coltan, quel minerale che veniva estratto proprio in RDC e che era necessario per gran parte degli strumenti tecnologici che fanno parte della nostra quotidianità, in particolar modo all’interno degli smartphone.

Decisi con lui che poteva essere utile andare sul campo a mostrare la storia che lui stava raccontando. Così, grazie al suo supporto e a quello dei numerosi contatti di ONG e Onlus che avevano a che fare con quell’argomento, in circa due mesi abbiamo “costruito” ciò che stava dietro il reportage. Quasi ogni giorno ero in contatto skype con le tante persone che hanno preso parte all’organizzazione logistica, ma non solo, della mia trasferta.

Proprio la prima fase del lavoro, ancora da casa come sovente accade in lavori di questo tipo, è importante quanto quella sul campo. A febbraio del 2016 ero nel North Kivu, la zona più ricca di queste miniere del nuovo oro nero. Terminata questa parte della storia, ho pensato di “seguire” la filiera del materiale tecnologico, andando ad informarmi su uno dei luoghi dove andava finire. Ho scoperto che uno dei cimiteri tecnologici più grandi del mondo era anche un luogo abitato da circa 70.000 persone. Si chiama Agbogbloshie, ed è una enorme E-waste abusiva, nella prima periferia di Accra, capitale del Ghana, che i locals chiamano “Sodom and Gomorrah”. Si ritornava, dopo un girotondo consumistico compulsivo, in quella regione del mondo dove nasce il minerale “cuore” del nostro amato smartphone, l’Africa. Anche in quel caso, dopo un periodo di ricerca da casa, per circa 20 giorni ho mostrato alcuni momenti della quotidianità di alcuni dei ragazzi che sopravvivono in quell’inferno dantesco”.

Ph Stefano Stranges, Two guys of the community in Sodom and Gomorrah inside their house made of the skeleton of old fridges. The rooftop is part of an old schoolbus. -Understanding the times-

Durante il TEDx di Rovigo 2019 hai mostrato al mondo le vittime della nostra ricchezza attraverso un “Viaggio attorno allo sfruttamento umano e ambientale”. Hai mostrato a tutti l’umanità di quelle persone che vivono in luoghi “dove non è più possibile respirare senza tossire”. Qual è la tua idea di ricchezza?

“Per rispondere mi appoggio a questo lavoro in particolare, il quale non vuole demonizzare la tecnologia, come alcune persone hanno pensato da un primo giudizio, bensì a sensibilizzare, a far conoscere per essere più consapevoli in un corretto consumo e utilizzo. In sostanza per me è questa l’idea di arricchimento personale, alla base di una speranza di “ricchezza” collettiva. Credo che nella conoscenza e nella capacità di ri-conoscenza sia nascosta la ricchezza“.

Ph Stefano Stranges, Miners in Luwowo Coltan mine.

Progetti futuri?

“In questo periodo sarei dovuto ritornare a Lesbo, dove avevo iniziato un reportage sul miraggio dell’Europa da parte dei migranti, ma purtroppo con il momento storico che stiamo tutti vivendo, non ho potuto, almeno per ora, raggiungere di nuovo l’isola. Dopo alcuni giorni di smarrimento, ho pensato che per una volta non dovevo prendere aerei o treni per mostrare un fatto storico sociale o una storia importante da raccontare. L’avevo proprio dentro le mie pareti di casa, fuori dal mio balcone e per le strade della mia città. Così dall’inizio del Lockdown ho iniziato un reportage a lungo termine che parte dalla visione personale e intima della vita ai tempi del virus, per poi propagarsi alle storie di chi corre anche per chi non ha più la forza di camminare. Questo lavoro, diviso in due parti che si intrecceranno, spero possa essere un giorno, quando tutto finirà, un libro che racconti questo momento epocale, e una mostra itinerante per non dimenticare”.

Per avere maggiori informazioni su Stefano Stranges consulta la sua pagina Instagram qui.

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