La mostra Bacon, Monaco e la cultura francese, curata da Martin Harrison, presenta 62 opere di Francis Bacon tra cui 3 trittici di grande formato, 13 opere comparative provenienti da musei e collezioni private, oltre a numerosi documenti d’archivio. Lo scopo dichiarato della mostra è quello di invitare il pubblico a scoprire l’opera di Francis Bacon da un punto di vista inedito, ossia quello dell’influenza della cultura francese e degli anni trascorsi a Monaco. La mostra è realizzata con la collaborazione di The Estate of Francis Bacon a Londra e della Francis Bacon MB Art Foundation a Monaco presso il Grimaldi Forum di Montecarlo (dal 2 luglio al 4 settembre 2016).
Luca Greco
Montecarlo – La mostra, che espone oltre 60 opere dell’artista, presenta, senza ombra di dubbio, un progetto molto ambizioso, forse il più ambizioso che sia mai stato dedicato a Francis Bacon fin ora. Sono esposti, infatti, importanti trittici dell’artista e alcuni suoi quadri più significativi accanto ad altri meno noti, selezionati e accuratamente raggruppati secondo un criterio tematico ben preciso: il rapporto di Bacon con la Francia e Monaco. Questo tema è affrontato attraverso una grande panoramica comparativa volta ad esporre le opere dei grandi artisti che hanno ispirato l’attività artistica del pittore irlandese: Giacometti, Léger, Lurçat, Michaux, Soutine, Toulouse-Lautrec. L’intero percorso scenografico della mostra è stato realizzato dal Bureau d’Etudes et de Design Grimaldi Forum su un’idea originale del curatore Martin Harrison.
La mostra
L’ingresso di quest’itinerario artistico è violento: il visitatore viene accolto da una caratteristica riproduzione fotografica ritraente Francis Bacon che tiene due quarti di carne.

Dopo aver attraversato la prima sala, dedicata alle opere che hanno ispirato le prime tele di Francis Bacon dal 1929 al 1933 (Toulouse-Lautrec, Jean Lurçat, Fernant Léger), si giunge a quella successiva, dove è presente il celebre ritratto di Innocenzo X che sembra scrutare con tutta la sua lucidità l’artista che lo raffigura; lo penetra con lo sguardo. Per tutta la sua vita Bacon sarà ossessionato da quest’opera: crea infatti una serie di tele, ispirate al dipinto di Velàzquez, molte delle quali presenti in mostra. La sua fissazione per questo ritratto ci spiega anche la sua attrazione per l’opera riprodotta, per la fotografia. Bacon acquisterà infatti qualsiasi opera in cui il quadro è riprodotto.
«Perché ritengo che sia uno dei più grandi ritratti mai realizzati, e per me è diventato una vera ossessione. Compro un libro dopo l’altro con dentro la riproduzione del papa di Velázquez, semplicemente perché mi assilla e apre in me ogni sorta di sensazioni e persino campi di… stavo per dire… immaginazione».
Il ritratto di Innocenzo X di Velázquez attrae Bacon soprattutto per quel senso di potere e autorità che esso esprime. Egli vuole dissacrare e umanizzare quest’autorità, vuole interrogare a fondo il potere e sostituirsi al suo posto, per svelarlo meglio: «il papa è unico. Essere il papa lo mette in una posizione unica e così, come in certe grandi tragedie è come se fosse issato su un baldacchino, e la grandezza di una tale immagine potesse, da lì, sovrastare il mondo». Si tratta di far emergere la verità, di rivendicare il ruolo di uno spazio interiore in contrapposizione ai falsi “fuori” virtuali, o artificiali: «vorrei creare uno spazio interiore così presente che la forma si articoli in maniera più probante».

Lo studio baconiano della rappresentazione del grido umano non è ispirato esclusivamente al dipinto di Velázquez; Bacon attinge, infatti, anche al mondo del cinema, in particolare fa riferimento alla scena dell’urlo della bambina presente nel film La Corazzata Potemkin di Ejzenštejn, del quale sarà proiettato uno spezzone a ciclo continuo su due schermi inseriti nell’esposizione. La sala seguente si intitola Caverna nera. Qui l’atmosfera diventa più buia e opprimente soprattutto a causa dei tendaggi di velluto presenti al suo interno. Al centro della sala è presente una struttura metallica sospesa che suggerisce l’idea della gabbia. Tale rimando è certamente rafforzato dai due disegni di Giacometti presenti all’inizio della sala.

Percorrendo il corridoio che collega la Caverna nera e la sala dedicata alla rappresentazione del corpo umano secondo Bacon, troviamo due tele appartenenti alla serie dedicata a Van Gogh. Dopo aver attraversato questa importantissima sezione di collegamento giungiamo alla sala dedicata allo studio del corpo umano. Qui sono presenti numerosi specchi che creano un gioco di riflessi che confonde l’immagine del visitatore con le opere presenti.
Bacon vuole deformare la realtà per allontanarla dall’apparenza. Decide, così, di sfigurare gli umani di cui fa il ritratto: «Ovunque si è occupati a far tacere i corpi, a truccarli, a dettare loro i propri discorsi prima che essi abbiano potuto riflettere e concentrarsi? L’atto plastico può intervenire tra la parola e la carne. I buoni sentimenti pullulano su sfondo di massacri? Bisogna mostrare come stanno veramente le cose, a colori».
Per Bacon, ogni atto di aggressione è riconducibile alla base della sessualità. La rappresentazione baconiana dell’atto sessuale in sé ritrae un soggetto «senza fine» che non sembra rendersi conto di ciò che accade esattamente in quella situazione poiché – come commenta Philimppe Sollers – l’animalità dell’azione non parla (Le Passioni di Francis Bacon, Sollers p.43). Di fronte all’incolmabile distanza tra la rappresentazione e ciò che accade nella sensazione l’artista irlandese si rimette alla buona fortuna. E se ciò non funziona, distrugge le sue creazioni. «Sapevo – dice Bacon – che volevo mettere due figure su un letto, e volevo mostrarle mentre copulavano […] ma non sapevo come fare perché quell’azione avesse la forza della sensazione che io ho provato per quella cosa. Non ho potuto fare altro che rimettermi alla buona fortuna per tentare di realizzare una immagine».
In un’altra occasione, Bacon precisa: «penso sovente ai corpi di persone che ho conosciuto, penso alle forme esteriori di quei corpi che mi hanno particolarmente colpito, ma a quel punto essi si innestano molto spesso sui corpi di Muibridgne (sui lottatori). Manipolo i corpi di Muibridge dando loro la forma di corpi che ho conosciuto».

L’itinerario espositivo continua con un’interessante sezione didattica interamente dedicata alle fotografie d’archivio e ai video di Bacon, cui fa seguito una sala dove sono esposti i ritratti fatti agli amici durante i suoi soggiorni in Francia o a Monaco. Dopo aver attraversato questa sezione si arriva finalmente alla sala che ricorda la trionfale esposizione dedicata all’artista dal Grand Palais nel 1971. Qui viene presentato il primo trittico di quella mostra. Le tre seguenti sale, infine, rendono omaggio agli ultimi Opus di Bacon con l’esposizione di due importanti trittici e dell’ultima tela inedita del 1991.

L’esperienza dell’atelier al 7 Reece Mews: uno spazio interattivo
La mostra si conclude infine con un’originale rievocazione del celebre atelier londinese di Bacon, al 7 Reece Mews. Una «scatola» di colore arancio che riproduce le reali misure dell’atelier dell’artista è collocata al centro dell’ultima sala. Passeggiando tra gli spazi angusti del suo laboratorio virtuale, il visitatore viene così esortato a vivere un’esperienza interattiva e ludica unica nel suo genere. Tale sezione costituisce, infatti, una straordinaria testimonianza delle sue numerosissime fonti iconografiche delle quali sono stati riesumati circa 7.500 oggetti catalogati tra fotografie, libri, dischi, appunti, disegni. Lo spazio interattivo, inoltre, comprende anche una cabina per fototessera e un tavolo dotato di schermo a sfioramento: chiunque può lasciare una traccia all’interno di quell’atelier condividendo le proprie immagini come se fossero istantanee polaroid, vecchie cartoline, pagine strappate da riviste ecc.
Perché Monaco?
Monaco svolge un ruolo fondamentale nella vita artistica di Francis Bacon. A spiegaro è Martin Harrison (curatore della mostra): «Durante il periodo monegasco tra il 1946 e il 1949, Bacon si dedica a rielaborare radicalmente le proprie idee sull’arte e decide a quale soggetto dedicarsi. Conserva molto poco di quanto dipinto allora, ma dal 1949 in avanti si consacra come il pittore del corpo e dello spirito umano. È evidentemente a Monaco che matura questa sua decisione. […] Per quanto strano possa sembrare dal momento che era noto l’amore di Bacon sia per la Francia e per l’arte e la cultura francese, che per Monaco, nessuna mostra ha mai cercato di chiarirne il significato né in Francia né a Monaco. Francis Bacon, Monaco e la cultura francese è la prima mostra ad analizzare questo vicendevole rapporto, attraverso più di sessanta quadri appositamente selezionati».
Durante il periodo monegasco, la passione per il gioco d’azzardo segna in modo determinante la sua creazione artistica. Non essendo più in grado di pagare il materiale a causa di una grande perdita al Casinò Belle Époque di Monaco, Bacon decide di dipingere sul retro della tela. Egli si rende subito conto che tale pratica fissa meglio la pittura e consolida la texture. D’ora in avanti questo modo di dipingere (su tela grezza senza imprimitura) diverrà un’abitudine che durerà per tutta la sua vita. La casualità nel processo creativo (cioè l’alternarsi di esaltazione e depressione) suscita in Bacon attimi di adreanalina di cui non può più farne a meno. Il reale baconiano, governato della casualità, diviene così un «illogico» punto d’incontro di un insieme di dati, forme e colori: «sono avido di vita, e sono avido come artista. Sono avido di ciò che il caso può, e lo spero, darmi: ciò che supera di gran lunga qualunque cosa potrei calcolare logicamente».
I ritratti di Francis Bacon: luoghi di apparenze perdute e ritrovate
Anche i suoi ritratti sembrano seguire tale «logica». Riconoscibili ma restanti in una sorta di anonimato sociale (avulsi da qualsivoglia psicologia e narrazione), i visi ritratti da Bacon diventano un terreno di sperimentazione che non esclude l’intervento del caso. Si tratta di presenze confuse di color carne, graffiate, spogliate di ogni somiglianza e prive di ogni realismo fotografico. Il volto deformato di queste persone (amici dell’artista) viene sottoposto ad una sorta di metamorfosi (la testa viene spesso dissossata e scarnificata): viene spazzolato e rigato attraverso segni di vario genere (cancellature e sbavature).

Studio per un ritratto (1953)
Dipinto tra la prime serie iconica dei Papi del 1953 e i successivi Uomo blu del 1954, Studio per un ritratto (1953) è un opera molto significativa per Bacon. L’imponente figura, «in chiaroscuro», indossa un abito scuro e rigido, con il collo bianco e la cravatta viola. Gli occhiali del personaggio sono senza stanghette e sembrano evocare il celebre urlo della bambina che si precipita giù per la scalinata di Odessa durante il film di di Ejzenštejn. Infine, l’elemento della sedia, qui presente in forma semplificata e geometrica, si inserisce nella scia degli otto Papi dipinti da Bacon. L’artista si avvale appieno di quest’importantissimo espediente pittorico per riflettere sull’immobilizzante angoscia esistenziale dell’uomo nell’Europa del dopoguerra.

L’influenza degli artisti francesi
Oltre le correnti e gli schematismi, oltre le definizioni Bacon resta aggrappato alla realtà e la fa sua nel solco dei grandi maestri francesi che influenzano le sue creazioni e le sua riflessione artistica, basti pensare alla tradizione pittorica di Ingres, alla tecnica di Cézanne, al «senso della tragedia» in Van Gogh, alla padronanza del nudo in Coubertà, all’uso del colore in Bonnard, alle opere di Degas, Monet, Soutine, Seurat e Picasso, al motivo della gabbia di Giacometti.
Come l’amico Giacometti Bacon fa uso, infatti, delle strutture tridimensionali per isolare e rinchiudere le sue figure in una sorta di vulnerabilità esistenziale. Per quanto riguarda, invece, la rappresentazione del corpo umano, le sculture di Michelangelo e di Rodin svolgono certamente un ruolo determinante. A tal proposito decisivo è anche il riferimento alle fotografie di Eadweard Muybridge che all’inizio del XX secolo ha tentato di registrare il movimento umano e animale.
La cultura francese lascia il suo segno anche sulla celebre serie dei papi urlanti: quando da giovane alloggia presso la famiglia Bocquetin a Chantilly (anni ’20) scopre al Musée de Condé il capolavoro di Poussin, Il massacro degli innocenti, ritraente l’urlo disperato di una madre davanti al soldato romano che sta per uccidere suo figlio. L’insieme di quest’immagine con la rappresentazione del grido di terrore della bambina presente all’interno del film La Corazzata Potëmkin di Ezenštejn abbinata alle tavole a colori delle malattie del cavo orale prese da un testo medico che Bacon si procura a Parigi nel 1927, spingono l’artista ad una lunghissima ricerca (senza fine) sul modo di rappresentare la bocca. Dopo aver realizzato almeno cinquanta versioni sul tema del papa, Bacon confesserà di non essere mai riuscito a dipingere il miglior «grido umano».
«Volevo dipingere una bocca […] che fosse come un tramonto di Monet».

Dopo lo straordinario successo della mostra a lui dedicata nel 1966 presso la Galerie Maeght, la rivista Derrière le Miror gli dedica un numero con l’introduzione di Michel Leiris, scrittore francese, etnologo e storico dell’arte. Negli anni ’70 il suo gallerista e caro amico Claude Bernard organizza diverse mostre di Bacon. Degna di nota è sicuramente quella «leggendaria» del 1977 in cui sono esposti solamente venti quadri dell’artista ma che attrae talmente tanta gente che la polizia è costretta a chiudere rue des Beaux-Arts. Benchè la Tate Gallery gli abbia dedicato due retrospettive nel 1962 e nel 1985, è la mostra al Grand Palais di Parigi del 1971 l’evento più significativo della sua carriera artistica (l’unico artista vivente a vedersi attribuire un simile onore era stato Picasso nel 1966). Quest’importante retrospettiva è segnata, tuttavia, qualche giorno prima della sua apertura, dalla tragica scomparsa del compagno George Dyer all’Hotel des Saints-Pères. Bacon gli dedicherà numerose opere, tra cui i tre celebri «trittici neri», il primo dei quali è del 1971, il secondo dell’agosto del 1972 e l’ultimo tra maggio e giugno 1973.
Delle opere di Francis Bacon, Leiris ha scritto che «esse aiutano potentemente a sentire ciò che per un uomo senza illusioni è il fatto di esistere». Sapere perché una pittura colpisca direttamente il sistema nervoso rappresenta, per Bacon, una questione molto intricata e difficile da risolvere: «Se una cosa viene trasmessa in modo diretto, la gente la sente come terrificante… Ha la tendenza a offendersi dei fatti, di ciò che si ha l’abitudine chiamare verità».
Per Bacon, viviamo quasi sempre dentro a schemi. Ovunque siamo circondati da «false immagini». La sua pittura altro non fa che «togliere lo schermo» in modo diretto, senza che intervenga il cervello. Essa – scrive Philippe Sollers traducendo Bacon – «rivela il sonno della ragione in quelli che la trovano mostruosa, mentre io, al contrario, faccio vedere come il risveglio dei mostri abbia generato una metamorfosi della ragione. Perché Hitler è potuto divenire, nell’indifferenza passiva quasi generale, un delirante specialista dell’assassinio? Come si spiega che Stalin sia stato un professionista, così applaudito della falsa testimonianza? Voi potreste saperlo veramente, se non foste ormai dei benpensanti intossicati, 24 ore su 24, dalla spettacolarizzazione planetaria. Ciononostante io, il pittore, devo esporre la nuda verità del teatro in corso. […] Si tratta di una pittura, e unicamente di pittura […]. Il quadro è qui: più che vederlo, lo si sente, lo si palpa; lo si ascolta. Non racconta una storia, va dritto al sistema nervoso. E tuttavia noi percepiamo proprio un evento raffigurato, un dramma in un balenamento, un grido, una meditazione, un vomito, una frattura. Essere o non essere, cioè rappresentarsi o non rappresentarsi, questo è il problema». (Le Passioni di Francis Bacon, Sollers pp. 17-18).
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