«Red Cloud»: le emozioni del cielo nell’ultimo disco di Dario Chiazzolino

Ripercorriamo l’intensa e appassionante avventura musicale di un grande artista, uno dei pochissimi musicisti italiani (appena trentenne) che si è imposto negli Stati Uniti tenendo testa ai maggiori colossi della chitarra. In questa intervista Dario Chiazzolino ci racconta il jazz, l’America e il suo nuovo disco, Red Cloud, in uscita a fine febbraio.

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Dario, parlaci dei tuoi esordi. Come nasce il tuo amore per il Jazz?

«Il mio amore per il Jazz nasce in maniera assolutamente inaspettata. Prendo in mano la mia prima chitarra all’età di undici anni e come la maggior parte dei ragazzini che iniziano a suonare questo strumento avevo il sogno di diventare una rock star. Mi piacevano gli assoli con la chitarra distorta e adoravo tutti i gruppi in cui la chitarra avesse un ruolo primario. Mi piaceva quel suono potente e vibrante dei grandi assoli rock. Potrei citare alcune band storiche e leggendarie che all’epoca mi facevano sognare: Led Zeppelin, Deep Purple e Pink Floyd per esempio. Quando ero adolescente addirittura ho suonato anche hard rock e heavy metal. Durante gli anni del liceo avevo una band con la quale suonavo brani degli Iron Maiden. Probabilmente anche coloro che mi seguono da tempo potrebbero fare fatica a crederci. Proseguendo con il racconto, sempre in quegli anni ascoltavo e suonavo anche cover di band come Dream Theater e Simphont X. Quello che più mi affascinava era il mondo dell’improvvisazione. Amavo improvvisare e tendevo a farlo ogni volta che mi fosse concesso. Improvvisavo per ore su un accordo cercando di creare una linea melodica, un fraseggio, un assolo. Ad un certo punto mi resi conto che per poter sviluppare al meglio quest’inclinazione musicale mi sarei dovuto avvicinare ad altri lidi. E fu così che scoprii Charlie Parker. Fu una vera folgorazione. Da lì in poi i miei orizzonti musicali si estesero ed io presi inconsciamente la decisione di diventare un Jazzista».

Dalla tua biografia leggo che sei nato a Torino, una città tradizionalmente legata al Jazz. In quale misura l’ambiente torinese ha contribuito alla tua crescita artistica e professionale? Quali sono stati gli stimoli e le ispirazioni che hai ricevuto da questa città?

«Sono nato e cresciuto a Torino e adoro profondamente questa città. È senza dubbio un luogo pieno di stimoli, dove la cultura e la musica hanno un peso specifico. Non avrei mai barattato nessun’altra città italiana con Torino, maggiormente proiettata verso città internazionali come Parigi e Londra. Torino è sempre stata una città che ha sfornato numerosi musicisti di talento, molti dei quali sono volati nelle grandi città ed altri ci sono rimasti in pianta stabile. Ritengo che questa città sia ricca di risorse e soprattutto di eccellenti musicisti con i quali io stesso ho avuto la possibilità di condividere progetti importanti sia sotto il profilo musicale sia sotto la sfera umana. A Torino compio anche i miei studi. Dopo il diploma al Liceo scientifico arriva la mia laurea in musica jazz presso il Conservatorio Giuseppe Verdi».

Appena trentenne e hai già suonato e collaborato con importanti artisti del Jazz come Bob Mintzer, Billy Cobham, Russell Ferrante, Rick Stone, Jason Rebello (il pianista di Sting), Yellow Jackets e tanti altri. All’interno del panorama musicale contemporaneo c’è ancora qualche musicista con cui non hai mai suonato e con il quale vorresti collaborare in futuro?

«Fino ad ora posso ritenermi davvero fortunato per aver collaborato con musicisti di così alto profilo. Il mio viaggio nella musica mi ha sempre regalato tante sorprese e spero che il futuro sia altrettanto generoso. Ci sono diversi musicisti con i quali vorrei collaborare ed i nomi che potrei citare sono davvero tanti, molti dei quali non farebbero neanche necessariamente parte dello scenario jazzistico. Negli anni ho riscoperto l’amore per la musica in toto ed ho cercato di eliminare barriere e confini tra i diversi stili musicali. Ho imparato ad apprezzare i musicisti per il loro valore senza dover necessariamente stabilire quale fosse il loro genere di provenienza e il loro background. Un musicista è tale in quanto porta con sé esperienze di vita, gioie, dolori e viaggi. È inevitabile che chi vive la musica intimamente e intensamente subisca una continua evoluzione a livello personale e di conseguenza a livello artistico: la musica è per me un’infinita ricerca interiore. Il jazz inteso nella sua accezione più ampia e aperta è la musica che più mi consente di esprimere liberamente la mia identità attraverso la mia visione dell’improvvisazione, la mia voce, e quella del mio strumento».

Per la critica musicale rappresenti uno dei pochi musicisti italiani che si sono imposti negli Stati Uniti. Inoltre, insegni chitarra jazz al Long Island Conservatory of Music di New York. Come è stato il tuo arrivo in America? Raccontaci un po’ la tua esperienza.

«Prima di trasferirmi qui a New York mi sono sempre spostato negli Usa per brevi periodi, soprattutto per progetti discografici. Posso dire di aver percepito sin da subito una forte connessione con questo luogo. È una città incredibilmente stimolante, con un tessuto musicale di primissimo livello, soprattutto per quanto riguarda lo scenario jazzistico. Molti dei jazzisti americani più importanti, per meglio dire la loro quasi totalità, risiedono a New York. Questo ovviamente dà la possibilità ad ogni artista di confrontarsi e crescere in una maniera probabilmente più intensa. Oltre a collaborare sia dal vivo che in studio con molti musicisti della scena newyorkese, sono docente del Long Island Conservatory of Music. Rispetto all’Italia o all’Europa, insegnare musica negli Stati Uniti è un compito assai più semplice. I sistemi didattici americani sono più essenziali e pragmatici e gli studenti sono abituati alla pratica piuttosto che a lunghi e tortuosi gironi teorici. È un’esperienza bellissima, soprattutto perché ho a che fare con studenti internazionali. Molti di loro arrivano dall’Asia e dal Sud America. Trovo che sia assolutamente entusiasmante potersi interfacciare con un tessuto sociale così diversificato. L’esperienza americana è comunque un’esperienza in divenire. Tra l’altro buona parte della mia discografia si basa su progetti discografici americani o italo-americani. Ho registrato dischi a New York e a Los Angeles. Ciò che probabilmente mi ha più colpito è proprio come si lavora negli studi di registrazione. I sound engineer procedono a ritmi impressionanti. Nell’ultimo disco che ho registrato in uno studio di Brooklyn (l’Acustic Studio) io e gli altri musicisti siamo arrivati in sala e tutto era già predisposto: amplificatori, cavi, sgabelli, leggii con partiture annesse. Non abbiamo nemmeno fatto il sound check. Siamo partiti subito a registrare».

A fine febbraio uscirà il tuo prossimo disco Red Cloud, un concept album, in quartetto con Dominique di Piazza, Antonio Faraò e Manhu Roche. Come nasce e si articola quest’idea musicale?

«È un progetto al quale sono molto legato e ritengo sia testimone di una parte molto importante della mia carriera. Con questo album voglio descrivere gli stati d’animo dell’uomo in connessione con il cielo. Ovviamente non era mia intenzione fare previsioni astrologiche o nulla di simile. Volevo semplicemente sonorizzare tutto ciò che ha a che fare con la nostra parte più intima: le emozioni. Anche il cielo ha le sue emozioni e trova sempre il modo di manifestarle. Talvolta possiamo essere tristi, cupi o addirittura furiosi. Altre volte siamo felici e rilassati. Ogni mia composizione – sono otto in totale – porta il nome di un diverso fenomeno atmosferico. L’unito standard è un famoso pezzo scritto da Miles Davis; sto parlando di Solar, che in qualche modo chiude e definisce la track list. Attraverso il suo potere esoterico e la sua struttura armonica lascia ampio respiro e suggerisce un approccio improvvisativo più aperto».

Quali sono i tuoi progetti futuri?

«Ho in cantiere diversi progetti musicali. Uno di questi è dedicato alla musica italiana, ma non posso sbilanciarmi oltre. Un altro progetto sarà più direzionato verso la world music. Ma i dettagli verranno svelati più avanti. Per ora preferisco che sia una sorpresa per coloro che mi seguono e supportano la mia musica».

(Intervista a cura di Luca Greco).

Un pensiero su “«Red Cloud»: le emozioni del cielo nell’ultimo disco di Dario Chiazzolino

  1. Sei riuscito ad incuriosirmi. Dimmi quando uscirà il disco. Alla mia fidanzata piace il Jazz… Io lo odio… Ma magari perchè ancora non ho incontrato un musicista in grado di farmelo apprezzare.
    Unico dolente punto negativo: Odio Charlie Parker… Spero che il suo influsso sul nostro amico sia finito il prima possibile

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